Ideologia del terrore e islamismo politico.
Sei spunti di riflessione conclusivi.
Manifestazione di donne musulmane a Londra |
Cosa ci insegna
questo lungo percorso attraverso la storia dell’islamismo contemporaneo? Quali
indicazioni possiamo trarre da essa? Come risposte a queste domande, propongo
questi sei spunti di riflessione.
Primo. Il mondo
musulmano è più variopinto di quanto possa apparire, non dimentichiamolo.
Esistono gli islamisti, che interpretano la religione islamica come ideologia
politica e perseguono un’utopia fondamentalista attraverso la violenza;
esistono però musulmani pacifici e desiderosi solo di vivere, lavorare,
allevare una famiglia e, ogni tanto, dedicare del tempo al culto. Allo stesso
modo, esistono Stati tradizionalisti che applicano la sharia (Iran, Arabia saudita), ma anche Stati popolati da milioni
di musulmani che hanno intrapreso il difficile cammino della separazione della
legge civile da quella coranica: Turchia, Pakistan, Iraq, Afghanistan, quasi
tutti i paesi islamici presenti in Africa. Anzi, la maggioranza dei paesi islamici
è sostanzialmente laica, persino la Siria, paese nel quale il governo dispotico
sta mietendo vittime a migliaia per reprimere la rivolta in corso. Infine, in
occidente, mescolati con abitanti di altre confessioni, con agnostici, con atei
vi sono ormai decine di milioni di musulmani che lavorano onestamente, studiano
con impegno e desiderano solo vivere in pace con il loro prossimo. Ripeto: gli
islamisti non sono l’Islam, non coincidono con la totalità dei musulmani, ne
costituiscono soltanto una ristretta minoranza, pericolosa, certo, molto
pericolosa e molto ben organizzata e diffusa, ma pur sempre una ristretta
minoranza.
L’Islam,
quindi, può convivere con la democrazia liberale, a patto che rinunci ad essere
ideologia totalitaria, a patto che rinunci a diventare “islamismo”. Se la
religione si separerà dalla politica, se saprà diventare religione del cuore e
dell’interiorità, come in parte sta già accadendo, se saprà insomma completare
quel cammino di scissione dalla legge civile che Qutb condannava e temeva, non
vedo perché questa grande religione monoteista non possa convivere con i
diritti individuali dell’Occidente. In parte, dicevo, sta già avvenendo in
molti paesi musulmani, ma molta strada rimane ancora da percorrere per la piena
conquista dei diritti civili: per le donne, soprattutto, ma anche per l’infanzia,
la libertà di culto e di opinione, la tutela del pluralismo culturale.
Secondo. Noi occidentali dobbiamo essere cauti
nell’uso di certe categorie concettuali che hanno un senso se riferite alla
nostra storia, ma potrebbero non averne affatto in quella dell’Islam, o averne
uno del tutto diverso. Ad esempio per noi oggi non può esistere la democrazia
senza la libertà; ma è così anche per i paesi musulmani? L’esportazione della
democrazia in regioni come Iran, Afghanistan, Pakistan, e domani forse Iran e
Siria, siamo sicuri che produrrà, come accaduto da noi, quel “tessuto
politico, giuridico, culturale, sociale fatto di diritti individuali e
collettivi, eguaglianza tra i generi, separazione tra i poteri, pluralismo,
affermazione del diritto positivo?” (Renzo Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2004,
p. VIII). Non potrebbe produrre invece, come sta accadendo, una “democrazia
senza democratici”, una “democrazia illiberale”? (cfr. Fareed Zakaria, Democrazia senza libertà: in America e nel
resto del mondo, 2003, tr. it. Milano, Rizzoli, 2004). Non dimentichiamo
che tutti i governi dispotici dei paesi musulmani che si sono succeduti dal
secondo dopoguerra ad oggi hanno fatto appello al consenso delle masse, hanno
portato in piazza milioni di persone, hanno dato spazio a folle tumultuanti e
rivoluzionarie, armate non solo di parole e slogan ma quasi sempre di
kalashnikov, bombe a mano e lanciarazzi Stinger. Del resto la stessa storia
europea lo insegna: la democrazia può convivere con il dispotismo delle masse;
solo con il tempo (e dopo catastrofi colossali come due guerre mondiali, i
lager e i gulag) noi europei abbiamo compreso che diritti civili (cioè libertà)
e democrazia devono camminare insieme.
Terzo. Le
categorie marxiste per interpretare i fenomeni storici non sono più adeguate, e
forse non lo sono mai state. Le rivoluzioni, i movimenti di massa, le azioni
violente, gli attentati, il terrorismo non nascono dalla fame e dalla
disperazione economica. Come ricorda Berman nel libro che ho più volte citato,
per coloro che ragionano utilizzando Marx, l’equazione è la seguente: se un
uomo arriva al punto di farsi saltare in aria con i suoi nemici, se arriva al
sacrificio supremo di sé e dei propri figli, vuol dire che è davvero disperato,
affamato, ridotto in condizione di abiezione sociale ed economica, quindi un
po’ di ragione deve pure averla. Le condizioni economiche, secondo questo
ragionamento, determinano il comportamento degli uomini, i quali non hanno
colpe se sono violenti: la colpa è di chi li ha ridotti così, la colpa è di chi
li sfrutta, di chi li riduce in povertà, di chi ne occupa le terre, ne affama
le famiglie, ne stermina la progenie, come scriveva Qutb. Ebbene, questo modo
di ragionare non solo è pericoloso, ma soprattutto è sbagliato. Pericoloso perché
addossa più o meno esplicitamente ogni colpa soltanto all’Occidente,
giustificando così anche gli attentati più sanguinosi di Al Qaeda contro civili
inermi e innocenti, molto spesso rappresentati dagli stessi musulmani, uccisi a
migliaia negli attentati degli ultimi dieci anni avvenuti a Baghdad e a Kabul. Sbagliato
perché sottovaluta completamente il ruolo psicologico del fanatismo ideologico,
la capacità della martellante propaganda e della predicazione dell’odio di
convincere ad uccidere e a martirizzarsi pur di perseguire gli scopi dell’ideologia.
Gli studi di psicologia sociale hanno dimostrato che si può condizionare la
volontà di milioni di persone indipendentemente dalla loro condizione
socio-economica e indipendentemente dal loro grado di istruzione. Anzi, la
storia dell’islamismo insegna che i membri dei gruppi più estremisti non sono
dei disperati, non hanno alle loro spalle storie di famiglie affamate e
sfruttate: sono più spesso giovani rampolli di famiglie istruite, con tempo e
denaro a sufficienza da potersi dedicare alla “guerra santa” ogni giorno, con
sufficiente alfabetizzazione da poter capire un complesso discorso
teologico-politico, con amicizie altolocate su cui contare in caso di pericolo.
Bin Laden era un multimiliardario; al-Zawahiri un medico facoltoso e ben
inserito nella società egiziana; i talebani provenivano dalle migliori famiglie
di etnia pashtun e il loro capo, il
mullah Mahammed Omar, era (o forse è, poiché sembra che ancora operi in
Afghanistan) un ulema, cioè uno
studioso di religione islamica, di certo non un proletario sfruttato e
abbrutito dalla fame. La fame e la disperazione non producono attentati come
quello dell’11 settembre 2001 a New York, né quelli accaduti di recente in
Libia e in Libano; al più possono dar vita ad una breve jacquerie, facilmente controllabile e reprimibile. Chi muore di
fame e subisce ore di sfruttamento brutale non ha la forza per organizzare una
strategia del terrore, tanto meno una rivoluzione. Per queste servono
convinzione, fanatismo, disponibilità di mezzi, pochi legami stabili con il
mondo reale, capacità di scomparire e di riapparire. Un poveraccio non ha
queste risorse.
Predicatori di odio: Abu Hamza al Masri mentre predica a Londra, a Finsbury Park. Di recente il governo britannico l'ha estradato negli Stati Uniti |
La predicazione continua e martellante dell’odio, invece, può
suscitare una forza gigantesca dalle viscere dell’inconscio e sfruttarla per le
più disparate finalità. Anche in questo caso noi europei dovremmo imparare
dalle rivoluzioni accadute nel nostro mondo: la rivoluzione francese non fu
iniziata da poveri affamati e disperati, ma da intellettuali aristocratici o borghesi
istruiti e ben nutriti; la rivoluzione russa non fu attuata dai contadini,
l’unica classe sociale costituita da veri disperati e morti di fame, ma da
fanatici istruiti che non avevano mai fatto né il contadino né l’operaio. Una
volta preso il potere, inoltre, sterminarono proprio i disperati e i morti di
fame, uccidendo milioni di contadini. Hezbollah, Hamas, lo jihadismo non sono
il frutto marcio dell’imperialismo occidentale, ma di una brutale campagna di
odio, predicato e propagato da profeti di morte che, di recente, usano anche
potenti mezzi di comunicazione di massa. La loro predicazione, inoltre,
approfittando della tolleranza culturale e del garantismo che regna nel mondo
occidentale, giunge fin sotto le finestre di casa nostra: non di rado, infatti,
moschee e centri di cultura islamica sorti nelle città occidentali ospitano
predicatori che, con i loro discorsi, infiammano gli animi dei fedeli,
suscitando odio e violenza.
Predicatori di odio: il predicatore egiziano Yusuf al Qaradawi, spesso ospite della tv Al Jazeera. |
Blofeld, mente e guida della Spectre nei film di 007 |
Quarto. Al
Qaeda e lo jihadismo mondiale non funzionano come la “Spectre” dei film di
James Bond. Non si tratta di organizzazioni verticali e gerarchiche guidate da
un solo leader. Non è sufficiente, quindi, decapitare il vertice, ad esempio
uccidere Bin Laden, per debellare completamente il terrorismo islamista. Se
fosse così, la morte dei molti capi di Al Qaeda avvenuta dal 2001 ad oggi
avrebbe dovuto porre termine agli attentati, invece questi non sono neppure
diminuiti. Persino l’uccisione di Osama Bin Laden non ha posto fine al
terrorismo e al mito della jihad mondiale contro l’Occidente. Questo è accaduto
perché Al Qaeda non è solo un’organizzazione, ma è soprattutto un’ideologia: la
stessa Cia ormai preferisce parlare di “alqaedismo”, piuttosto che di Al Qaeda.
In altre parole, per ogni fanatico sottoposto alla martellante propaganda di
odio di qualche mullah, è sufficiente
realizzare un attentato per ritenersi affiliato alla rete di Al Qaeda, anche se
non ha mai visto né conosciuto i capi dell’organizzazione. Il fenomeno dello
jihadismo internazionale assomiglia, mutatis
mutandis, al leninismo del primo dopoguerra europeo: non era necessario che
i bolscevichi russi sostenessero o finanziassero i tentativi rivoluzionari di
Budapest o di Berlino perché in quelle città scoppiassero rivolte comuniste;
era più che sufficiente che in Ungheria e in Germania operassero gruppi
autonomi che si richiamavamo all’ideologia-madre, quella leninista appunto, per
suscitare forze e movimenti rivoluzionari. Non illudiamoci, quindi, non bastano
né le operazioni coperte e segrete, tipiche dei film di spionaggio, né le
tecnologie sofisticate degli agenti segreti per aver ragione del terrorismo.
Time del 17 settembre scorso |
Quinto. Nonostante
ciò, Al Qaeda e gli jihadisti non sono invincibili. Di recente abbiamo saputo
che in alcuni paesi sono le stesse popolazione islamiche a prendere coscienza dei
costi e dei pericoli che comporta ospitare sul proprio territorio
organizzazioni terroristiche: gli yemeniti, ad esempio, colpiti nel maggio di
quest’anno da un gravissimo attentato compiuto da Ansar al Sharia, gruppo
affiliato ad Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), hanno compreso che la guerra
contro il terrore globale non riguarda più soltanto gli Stati Uniti, ma anche
loro (cfr. Bobby Ghosh, The end of
Al-Qaeda?, in Time, september 17,
2012, pp. 16-23). Nello Yemen, infatti, Al Qaeda, sostenuta a quanto pare da
finanziamenti provenienti dall’Iran, mira a separare una parte del territorio,
la provincia di Abyan, dal resto della nazione. Perciò il Presidente Mansour
Hadi è passato al contrattacco e a giugno le città di Jaar e Zinjibar, da tempo
controllate da Ansar al Sharia, sono state riconquistate dall’esercito
yemenita: nei combattimenti sono morti non meno di 390 militanti di Al Qaeda. È
stato un grande successo nei confronti della rete terroristica globale e
dimostra che con mezzi adeguati si possono ottenere risultati importanti.
Ovviamente non si può essere troppo schizzinosi: la lotta contro la violenza
sanguinaria degli jihaidisti non sempre può essere condotta a colpi di
fioretto. Lo sa bene Barack Obama che da gennaio di quest’anno ha ordinato,
proprio nello Yemen del sud, ben 20 attacchi di droni, il doppio di quelli
ordinati in tutto il 2011.
Mappa dello Yemen |
L'attacco di un drone |
André Glucksmann |
Sesto. Per
sconfiggere il terrorismo è necessario che noi occidentali riflettiamo
attentamente sulla posta in gioco, che diventiamo consapevoli dei rischi che
corrono la libertà e la democrazia in questa guerra globale contro il terrore.
Come ricordava qualche anno fa André Glucksmann, il vero problema del rapporto
con l’Islam sta nel modo con il quale noi occidentali apprezziamo i valori
della nostra civiltà (cfr. A. Glucksmann, Occidente
contro Occidente, 2003, tr. it. Torino, Lindau, 2004). Per noi, abituati ad
essere liberi e a considerare legittimo ogni modo di pensare, per noi,
cresciuti nel più convinto relativismo culturale, può apparire non pericolosa
la predicazione dell’odio contro l’Occidente: ognuno, si dice spesso, può dire
ciò che vuole. Non ci accorgiamo, in questo modo, che consentiamo a culture
intolleranti e persino totalitarie di crescere e di mettere radici nei paesi
liberal-democratici, minacciando le basi stesse della convivenza democratica.
Noi occidentali non crediamo abbastanza in queste basi (ovvero in valori come
la tolleranza, la libertà, i diritti politici e civili) se tolleriamo che i
suoi nemici possano prosperare e sollevare contro questi valori la rabbia e la
violenza di gruppi che perseguono obiettivi sanguinari e dispotici. Dovremmo
essere più accorti nel denigrare l’Occidente e la sua storia, e imparare a
difendere le libertà che in esso sono nate attraverso secoli di sofferenze e di
errori. La democrazia liberale, ha spiegato Popper (1902-1994), è l’unico
sistema inventato dagli albori dell’umanità, in cui è possibile sostituire chi
governa senza ricorrere continuamente alla violenza, senza spargimenti di
sangue. La democrazia liberale è l’unico sistema che accetta critiche e
contestazioni nei confronti di chi governa. Ma tale sistema può sopravvivere ad
una sola condizione: che si sia intolleranti contro gli intolleranti, che si sia
pronti ad usare la forza contro i nemici della democrazia liberale. Se non si
accetta questa condizione, se non si è disposti a battersi per difendere la
propria libertà contro i nemici della libertà, prima o poi i sistemi
liberal-democratici sono destinati ad essere sconfitti dalle dittature, poiché per
il relativismo culturale nessuno ha il diritto di giudicare quale sistema sia
migliore. È questo, come ha scritto Popper, il “paradosso della tolleranza”: “la
tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo
l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo
disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli
intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”
(Karl R. Popper, La società aperta e i
suoi nemici, 1946, tr. it. Roma, Armando, 1996, p. 346).
Karl Raimund Popper |
Forza se serve e quando serve; amore
per la libertà e per la democrazia. Non credo ci siano armi migliori di
queste per sconfiggere il terrorismo islamista e jihadista.
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