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martedì 6 novembre 2012

L'Italia tra celebrazioni e fine della nazione.


È già iniziata la calata degli Hyksos?

Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco è docente di Filosofia politica all’Università di Genova. Pensatore di cultura liberale, i suoi libri e i suoi articoli sono spesso controcorrente e anticonformisti. Nel numero di luglio-agosto della rivista Nuova storia contemporanea è intervenuto con un graffiante articolo a commentare la conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia (Dino Cofrancesco, Gli Hyksos sono arrivati (ora), in Nuova storia contemporanea, n. 4 luglio-agosto 2012, pp. 97-100). L’articolo è provocatorio già nell’avvio: “Le celebrazioni del 150° anniversario dell’ Unità d’Italia – vi si legge - si sono concluse e, come prevedevano i più pessimisti, il risultato di tanti festeggiamenti, rievocazioni, cerimonie ufficiali è stato il gran cumulo di cenere prodotta dai numerosi fuochi di retorica paglia”.

L’autore può forse sembrare troppo crudele da queste prime battute. In effetti è vero che di retorica ne è stata versata molta durante quelle celebrazioni, tuttavia non solo ciò è inevitabile che accada in occasione di simili ricorrenze, ma è anche vero che, forse, qualcosa più della cenere esse potrebbero aver lasciato: oggi, più di qualche decennio fa, non è più una vergogna sventolare il tricolore; oggi, più degli anni Sessanta e Settanta, i giovani non sembrano tenere in considerazione chi usa ancora l’epiteto “fascista” per coloro che si definiscono patriottici; oggi, più degli anni trascorsi, è ritenuto prioritario da almeno tre quarti della popolazione italiana preservare l’Unità della nazione: ci sono molti sondaggi che lo provano. Se questo cambiamento è avvenuto, ciò si deve anche alle cerimonie e alla retorica che hanno ricondotto nel discorso pubblico la parola nazione, che hanno legittimato di nuovo il suo uso, dopo decenni di demonizzazione e di oblio.
Un momento della Notte Tricolore (17 marzo 2011): l'Altare
della Patria illuminato con i colori della bandiera italiana
Giuseppe Mazzini
Eppure, l’opinione di Cofrancesco è condivisibile, e il suo discorso merita di essere seguito fino in fondo. Innanzitutto, l’autore critica l’uso distorto e unilaterale della memoria risorgimentale: “stando ai discorsi ufficiali, ai convegni, ai cortei dinanzi ai monumenti della patria, l’unità nazionale la dobbiamo, soprattutto, ai due Giuseppe, Mazzini e Garibaldi: sullo sfondo resta ancora il gran conte, Camillo Benso di Cavour, mentre quasi nessuno ha reso gli onori che pur si dovevano al re galantuomo, Vittorio Emanuele II […]”. Ma soprattutto, aggiunge Cofrancesco, restano ancora fuori dai discorsi ufficiali i cattolici moderati (non soltanto i Gioberti, i Rosmini, i Manzoni, i Capponi, i Lambruschini, ma anche i Balbo, i Minghetti, i Ricasoli, i Mamiani), ovvero l’unico ceto colto e illuminato che possedeva l’Italia e che si impegnò per educare gli italiani e per fare dell’Italia una nazione all’altezza dei tempi. Insomma, si sarebbe celebrato del Risorgimento la pars destruens, quella dei rivoluzionari, più che l’impegno di quegli attori che costituirono il reale nerbo della nazione; si è preferito celebrare Mazzini, nonostante le sue fallite rivoluzioni, la sua presunta modernità e il suo presunto europeismo ante litteram, piuttosto che l’iniziativa di quel ceto operoso e concreto che affrontò i reali problemi della nazione. Ciò è accaduto, afferma Cofrancesco, perché abbiamo celebrato i nostri 150 anni senza chiederci “chi siamo stati, chi siamo, chi vogliamo essere”: “ci siamo richiamati ai valori alti e forti della modernità senza chiederci quali valori costituiscono la nostra identità più profonda e quali vogliamo conservare e trasmettere intatti alle nuove generazioni: abbiamo festeggiato la nascita di una creatura di cui ci siamo compiaciuti unicamente per la sua somiglianza (supposta) a tutte le altre nazioni dell’Occidente”.
Promozione dei corsi in lingua inglese alla Sapienza
E qui, secondo il nostro autore, comincerebbero i nostri problemi: una nazione che festeggia la sua nascita, ma disprezza la propria la propria lingua; una nazione che celebra i suoi natali ma evita di parlare di quella parte della propria storia che pure costituisce la sua identità; una nazione che ricorda solo alcuni dei suoi avi, quelli più à la page, amati anche all’estero. Allora non c’è da stupirsi, ricorda Cofrancesco, se alla Sapienza di Roma, che pure è stata in prima linea durante le celebrazioni, le lezioni di molti curricula si tengono in inglese; non c’è da stupirsi se molti degli intellettuali che vi operano rinunciano ad esprimersi nella propria lingua per scrivere saggi solo in inglese; non c’è da stupirsi se tra il finanziamento pubblico di un corso di studi su Dante ed uno sul filosofo statunitense John Rawls (1921-2002), in Italia avrebbe la precedenza quest’ultimo proprio perché “non-italiano”. “Tra l’avventuriero delle lettere che ha imparato bene l’inglese, è riuscito a infilarsi in qualche università americana e può vantare al suo attivo dieci (superficialissime) opere in inglese e un oscuro studioso che pubblica un nuovo Principe, non inferiore a quello di Machiavelli, ma lo pubblica in italiano, in un numero limitato di copie e per un piccolo editore di Casale Monferrato, in base alla filosofia modernista della Pubblica Istruzione, si dovrebbe, senz’altro, anteporre il primo nell’assegnazione di una cattedra universitaria”.
Se le cose stanno così, allora è vero che ciò che si è detto durante le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità è stata solo retorica: se proprio il mondo della cultura, cioè quel mondo che dovrebbe elaborare, riempire di contenuti e consegnare alle nuove generazioni l’immagine della nazione, se proprio questo mondo disprezza la nazione e quasi se ne vergogna, allora vuol dire che non c’è più speranza per la lingua, l’identità, la tradizione, la cultura italiane. Tutto ciò è già sommerso dal diluvio linguistico-culturale anglosassone, trasportato e imposto dall’intrattenimento di massa e dal linguaggio della telematica. L’italiano e l’Italia hanno i giorni contati: l’imperialismo culturale tecnologico-anglosassone ne sta già facendo strame.
English for life o...
Ma c’è un altro aspetto della questione ancor più paradossale. Lascio che sia Cofrancesco a spiegarlo: “i modernizzatori, quelli che sognano asili infantili in cui sarà obbligatorio parlare in inglese, appartengono a una political culture che detesta l’America profonda dei primi film di Clint Eastwood, dei cow boys, dei fondamentalisti religiosi, dei farmer delle Grandi Pianure, e dei movimenti populisti antitasse. L’unica America a essi congeniale è quella wasp (bianca, anglosassone, protestante) ma soltanto quando vota per i democratici o esprime, nei costosissimi college della costa orientale, una classe intellettuale newdealer, keynesiana, liberal. Il grande paese dei texani, dei Reagan, dei Barry Goldwater, per gli anglomani nostrani, è populismo becero, una minaccia per la democrazia e per la civiltà. Se non esprimono dirigenze politiche di sinistra, gli Stati Uniti perdono le loro simpatie, anche se poi esse continuano a intrattenere cordiali rapporti di collaborazione, a tutti i livelli, con la parte sana della Nation”.
Questi modernizzatori, quindi, appartengono ad un’elite democratica e progressista, nemica della cultura di massa, del capitalismo selvaggio e della globalizzazione intesa come dominio delle multinazionali e delle banche. In realtà gli appartenenti a questa nuova classe (che Cofrancesco chiama anche degli “anglo-innovatori”) “hanno interiorizzato proprio la quintessenza del modello sociale da loro più detestato”, poiché per essi è più importante la quantità che la qualità: “allorché dicono che l’aver scritto un saggio in italiano, che non sia stato tradotto in inglese – e che, quindi, non possa venir letto (in teoria) da un grande numero di persone – è come non aver scritto niente, non si rendono conto di porsi nell’ordine di idee del ‘numero è potenza’. Solo che, in questo caso, i ‘numeri’ ce li hanno gli altri e a noi tocca il destino dei sudditi coloniali dei bwana bianchi”. Per questa jet set importante è parlare in inglese e usare il tablet, indipendentemente da ciò che si sa e che si dice; importante è non perdere tempo a leggere i Promessi sposi.
...o Promessi sposi?
Probabilmente tra di voi ci sarà chi giudica queste opinioni di Cofrancesco fuori dalla realtà e un tantino pessimiste. Davvero la nostra storia e la nostra lingua corrono il rischio di essere dimenticate proprio a causa delle politiche di modernizzazione che retoricamente si oppongono all’imperialismo delle multinazionali ma che, concretamente, favoriscono un più subdolo e potente imperialismo culturale? Non so dare una risposta definitiva a queste domande, ma la questione sollevata dall’articolo di Cofrancesco merita molta attenzione e su essa tornerò ancora nei miei post. Intanto concludo con un riferimento alla mia personale esperienza. Nella mia quasi trentennale professione di insegnante ho conosciuto molti Presidi o, come si dovrebbe dire oggi, Dirigenti scolastici. Quasi tutti di vedute democratiche e progressiste. Durante le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia i più innovatori e intraprendenti tra essi si sono attivati per non lasciarsi sfuggire l’occasione di prendere parte alla kermesse: hanno organizzato mostre, laboratori di storia, convegni, progetti su questo o quell’aspetto del Risorgimento, soprattutto declinato in senso localistico. Essere presenti nel corso delle celebrazioni ha significato molto per questi Dirigenti: ha significato far notare la scuola, lasciare un segno, farsi conoscere; ma anche attirare finanziamenti, pubblici e privati, per le suddette attività. C’è qualcosa di male in questa logica? Forse sì, forse no. Ma molti di quelli che conosco, per lo più democratici e progressisti come dicevo, fino a qualche mese prima tormentavano i loro insegnanti di storia ripetendogli il noto refrain: “non perdete tempo con le guerre d’indipendenza, piuttosto spiegate il global warming!”. Terminate le celebrazioni risorgimentali, durante le quali hanno contribuito alla grande ingozzata di “Mazzini e mazziniani nelle Marche” o “Garibaldi e camicie rosse in Abruzzo”, sono tornati alla carica e hanno ripreso a rintronare nelle orecchie dei loro docenti: “non perdete tempo con il Risorgimento, piuttosto spiegate l’attuale crisi economica!”.
Calata degli Hyksos?
Gli “hyksos” dominarono, o forse invasero, l’Egitto tra XVIII e XVI secolo a.C. Il termine si usa, oltre il suo significato originario, per indicare un’improvvisa e inattesa invasione che produce scompiglio, decadenza, barbarie. Benedetto Croce usò l’espressione per definire il fascismo come “malattia morale”: un’improvvisa e inattesa decadenza spirituale che assalì l’Italia e il suo popolo. Gli hyksos di oggi passerebbero attraverso il valico aperto dal progressismo culturale e dalla scuola democratica? Riflettiamoci, prima di trovarci a camminare tra le rovine.

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