È già iniziata la calata degli Hyksos?
Dino Cofrancesco |
Dino Cofrancesco è docente di Filosofia
politica all’Università di Genova. Pensatore di cultura liberale, i suoi libri
e i suoi articoli sono spesso controcorrente e anticonformisti. Nel numero di
luglio-agosto della rivista Nuova storia
contemporanea è intervenuto con un graffiante articolo a commentare la
conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia (Dino
Cofrancesco, Gli Hyksos sono arrivati
(ora), in Nuova storia contemporanea,
n. 4 luglio-agosto 2012, pp. 97-100). L’articolo è provocatorio già nell’avvio:
“Le celebrazioni del 150° anniversario dell’ Unità d’Italia – vi si legge - si
sono concluse e, come prevedevano i più pessimisti, il risultato di tanti
festeggiamenti, rievocazioni, cerimonie ufficiali è stato il gran cumulo di
cenere prodotta dai numerosi fuochi di retorica paglia”.
L’autore può forse sembrare troppo
crudele da queste prime battute. In effetti è vero che di retorica ne è stata
versata molta durante quelle celebrazioni, tuttavia non solo ciò è inevitabile
che accada in occasione di simili ricorrenze, ma è anche vero che, forse,
qualcosa più della cenere esse potrebbero aver lasciato: oggi, più di qualche
decennio fa, non è più una vergogna sventolare il tricolore; oggi, più degli
anni Sessanta e Settanta, i giovani non sembrano tenere in considerazione chi
usa ancora l’epiteto “fascista” per coloro che si definiscono patriottici;
oggi, più degli anni trascorsi, è ritenuto prioritario da almeno tre quarti
della popolazione italiana preservare l’Unità della nazione: ci sono molti
sondaggi che lo provano. Se questo cambiamento è avvenuto, ciò si deve anche
alle cerimonie e alla retorica che hanno ricondotto nel discorso pubblico la
parola nazione, che hanno legittimato di nuovo il suo uso, dopo decenni di
demonizzazione e di oblio.
Un momento della Notte Tricolore (17 marzo 2011): l'Altare della Patria illuminato con i colori della bandiera italiana |
Giuseppe Mazzini |
Eppure, l’opinione di Cofrancesco è condivisibile,
e il suo discorso merita di essere seguito fino in fondo. Innanzitutto,
l’autore critica l’uso distorto e unilaterale della memoria risorgimentale:
“stando ai discorsi ufficiali, ai convegni, ai cortei dinanzi ai monumenti
della patria, l’unità nazionale la dobbiamo, soprattutto, ai due Giuseppe,
Mazzini e Garibaldi: sullo sfondo resta ancora il gran conte, Camillo Benso di
Cavour, mentre quasi nessuno ha reso gli onori che pur si dovevano al re galantuomo,
Vittorio Emanuele II […]”. Ma soprattutto, aggiunge Cofrancesco, restano ancora
fuori dai discorsi ufficiali i cattolici moderati (non soltanto i Gioberti, i
Rosmini, i Manzoni, i Capponi, i Lambruschini, ma anche i Balbo, i Minghetti, i
Ricasoli, i Mamiani), ovvero l’unico ceto colto e illuminato che possedeva
l’Italia e che si impegnò per educare gli italiani e per fare dell’Italia una
nazione all’altezza dei tempi. Insomma, si sarebbe celebrato del Risorgimento
la pars destruens, quella dei
rivoluzionari, più che l’impegno di quegli attori che costituirono il reale
nerbo della nazione; si è preferito celebrare Mazzini, nonostante le sue
fallite rivoluzioni, la sua presunta modernità e il suo presunto europeismo ante litteram, piuttosto che l’iniziativa
di quel ceto operoso e concreto che affrontò i reali problemi della nazione.
Ciò è accaduto, afferma Cofrancesco, perché abbiamo celebrato i nostri 150 anni
senza chiederci “chi siamo stati, chi siamo, chi vogliamo essere”: “ci siamo
richiamati ai valori alti e forti della modernità senza chiederci quali valori
costituiscono la nostra identità più profonda e quali vogliamo conservare e
trasmettere intatti alle nuove generazioni: abbiamo festeggiato la nascita di
una creatura di cui ci siamo compiaciuti unicamente per la sua somiglianza
(supposta) a tutte le altre nazioni dell’Occidente”.
Promozione dei corsi in lingua inglese alla Sapienza |
E qui, secondo il nostro autore,
comincerebbero i nostri problemi: una nazione che festeggia la sua nascita, ma
disprezza la propria la propria lingua; una nazione che celebra i suoi natali
ma evita di parlare di quella parte della propria storia che pure costituisce
la sua identità; una nazione che ricorda solo alcuni dei suoi avi, quelli più à la page, amati anche all’estero.
Allora non c’è da stupirsi, ricorda Cofrancesco, se alla Sapienza di Roma, che
pure è stata in prima linea durante le celebrazioni, le lezioni di molti curricula si tengono in inglese; non c’è
da stupirsi se molti degli intellettuali che vi operano rinunciano ad
esprimersi nella propria lingua per scrivere saggi solo in inglese; non c’è da
stupirsi se tra il finanziamento pubblico di un corso di studi su Dante ed uno
sul filosofo statunitense John Rawls (1921-2002), in Italia avrebbe la
precedenza quest’ultimo proprio perché “non-italiano”. “Tra l’avventuriero
delle lettere che ha imparato bene l’inglese, è riuscito a infilarsi in qualche
università americana e può vantare al suo attivo dieci (superficialissime)
opere in inglese e un oscuro studioso che pubblica un nuovo Principe, non inferiore a quello di
Machiavelli, ma lo pubblica in italiano, in un numero limitato di copie e per
un piccolo editore di Casale Monferrato, in base alla filosofia modernista
della Pubblica Istruzione, si dovrebbe, senz’altro, anteporre il primo
nell’assegnazione di una cattedra universitaria”.
Se le cose stanno così, allora è vero
che ciò che si è detto durante le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità è stata
solo retorica: se proprio il mondo della cultura, cioè quel mondo che dovrebbe
elaborare, riempire di contenuti e consegnare alle nuove generazioni l’immagine
della nazione, se proprio questo mondo disprezza la nazione e quasi se ne
vergogna, allora vuol dire che non c’è più speranza per la lingua, l’identità,
la tradizione, la cultura italiane. Tutto ciò è già sommerso dal diluvio
linguistico-culturale anglosassone, trasportato e imposto dall’intrattenimento
di massa e dal linguaggio della telematica. L’italiano e l’Italia hanno i
giorni contati: l’imperialismo culturale tecnologico-anglosassone ne sta già
facendo strame.
English for life o... |
Ma c’è un altro aspetto della questione ancor
più paradossale. Lascio che sia Cofrancesco a spiegarlo: “i modernizzatori,
quelli che sognano asili infantili in cui sarà obbligatorio parlare in inglese,
appartengono a una political culture
che detesta l’America profonda dei primi film di Clint Eastwood, dei cow boys, dei fondamentalisti religiosi,
dei farmer delle Grandi Pianure, e
dei movimenti populisti antitasse. L’unica America a essi congeniale è quella wasp (bianca, anglosassone, protestante)
ma soltanto quando vota per i democratici o esprime, nei costosissimi college
della costa orientale, una classe intellettuale newdealer, keynesiana, liberal.
Il grande paese dei texani, dei Reagan, dei Barry Goldwater, per gli anglomani
nostrani, è populismo becero, una minaccia per la democrazia e per la civiltà.
Se non esprimono dirigenze politiche di sinistra, gli Stati Uniti perdono le
loro simpatie, anche se poi esse continuano a intrattenere cordiali rapporti di
collaborazione, a tutti i livelli, con la parte sana della Nation”.
Questi modernizzatori, quindi, appartengono
ad un’elite democratica e progressista, nemica della cultura di massa, del
capitalismo selvaggio e della globalizzazione intesa come dominio delle
multinazionali e delle banche. In realtà gli appartenenti a questa nuova classe
(che Cofrancesco chiama anche degli “anglo-innovatori”) “hanno interiorizzato
proprio la quintessenza del modello sociale da loro più detestato”, poiché per
essi è più importante la quantità che la qualità: “allorché dicono che l’aver
scritto un saggio in italiano, che non sia stato tradotto in inglese – e che,
quindi, non possa venir letto (in teoria) da un grande numero di persone – è
come non aver scritto niente, non si rendono conto di porsi nell’ordine di idee
del ‘numero è potenza’. Solo che, in questo caso, i ‘numeri’ ce li hanno gli
altri e a noi tocca il destino dei sudditi coloniali dei bwana bianchi”. Per questa jet
set importante è parlare in inglese e usare il tablet, indipendentemente da
ciò che si sa e che si dice; importante è non perdere tempo a leggere i Promessi sposi.
...o Promessi sposi? |
Probabilmente tra di voi ci sarà chi
giudica queste opinioni di Cofrancesco fuori dalla realtà e un tantino
pessimiste. Davvero la nostra storia e la nostra lingua corrono il rischio di
essere dimenticate proprio a causa delle politiche di modernizzazione che
retoricamente si oppongono all’imperialismo delle multinazionali ma che,
concretamente, favoriscono un più subdolo e potente imperialismo culturale? Non
so dare una risposta definitiva a queste domande, ma la questione sollevata
dall’articolo di Cofrancesco merita molta attenzione e su essa tornerò ancora
nei miei post. Intanto concludo con un riferimento alla mia personale
esperienza. Nella mia quasi trentennale professione di insegnante ho conosciuto
molti Presidi o, come si dovrebbe dire oggi, Dirigenti scolastici. Quasi tutti
di vedute democratiche e progressiste. Durante le celebrazioni per i 150 anni
dell’Unità d’Italia i più innovatori e intraprendenti tra essi si sono attivati
per non lasciarsi sfuggire l’occasione di prendere parte alla kermesse: hanno organizzato mostre,
laboratori di storia, convegni, progetti su questo o quell’aspetto del
Risorgimento, soprattutto declinato in senso localistico. Essere presenti nel
corso delle celebrazioni ha significato molto per questi Dirigenti: ha significato
far notare la scuola, lasciare un segno, farsi conoscere; ma anche attirare
finanziamenti, pubblici e privati, per le suddette attività. C’è qualcosa di
male in questa logica? Forse sì, forse no. Ma molti di quelli che conosco, per
lo più democratici e progressisti come dicevo, fino a qualche mese prima
tormentavano i loro insegnanti di storia ripetendogli il noto refrain: “non perdete tempo con le
guerre d’indipendenza, piuttosto spiegate il global warming!”. Terminate le celebrazioni risorgimentali, durante
le quali hanno contribuito alla grande ingozzata di “Mazzini e mazziniani nelle
Marche” o “Garibaldi e camicie rosse in Abruzzo”, sono tornati alla carica e
hanno ripreso a rintronare nelle orecchie dei loro docenti: “non perdete tempo
con il Risorgimento, piuttosto spiegate l’attuale crisi economica!”.
Calata degli Hyksos? |
Gli “hyksos” dominarono, o forse
invasero, l’Egitto tra XVIII e XVI secolo a.C. Il termine si usa, oltre il suo
significato originario, per indicare un’improvvisa e inattesa invasione che
produce scompiglio, decadenza, barbarie. Benedetto Croce usò l’espressione per
definire il fascismo come “malattia morale”: un’improvvisa e inattesa decadenza
spirituale che assalì l’Italia e il suo popolo. Gli hyksos di oggi passerebbero
attraverso il valico aperto dal progressismo culturale e dalla scuola
democratica? Riflettiamoci, prima di trovarci a camminare tra le rovine.
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