Segnalo ai miei lettori l'articolo scritto per Fanpage: Il calcio in Italia è "il momento dell'odio". L'articolo ha preso spunto dalla vicenda della partita Salernitana-Nocerina (vedi foto), per trarre alcune considerazioni generali sullo sport più amato dagli italiani. Buona lettura!
Tersite
Storie e pensieri dalla periferia del mondo
venerdì 15 novembre 2013
lunedì 4 novembre 2013
Grillo e Berlusconi stanno già governando?
L'asse Grillo Berlusconi esiste già? Secondo Vittorio Feltri sì. Lo ha sostenuto anche Michele Santoro nell'ultima puntata di Servizio pubblico. Per sapere come la penso sulla questione segui il link: Grillo sta già governando (con Berlusconi)?, articolo pubblicato ieri su Fanpage. A presto!
domenica 27 ottobre 2013
Magistratura al posto della famiglia? Il mio articolo su Fanpage
Due settimane fa ho ricevuto, come altri insegnanti, dal Tribunale per i Minori di Ancona una "raccomandazione" (qui sopra ne vedete una parte) che invita il personale delle scuole a segnalare, oltre ai casi di evasione dell'obbligo scolastico, anche i casi di maltrattamento "intra o extrafamiliare, nelle varie forme dell'incuria, della discuria e dell'ipercura". Cosa significa? Che conseguenze può avere una raccomandazione come questa? E, soprattutto, come mai i giudici si occupano anche del "modo" con cui un figlio viene educato?
Se volete saperne di più, leggete il mio articolo su Fanpage: Una magistratura che si sostituisce alla famiglia.
Buona lettura!
martedì 22 ottobre 2013
Arroganze: Barilla contro i gay; i gay contro Barilla
Il “pensiero unico”
gay e il rischio di un nuovo conformismo
L’episodio è noto: il 26
settembre scorso Guido Barilla, Presidente dell’omonimo gruppo industriale,
durante un’intervista rilasciata ai conduttori della trasmissione La zanzara di Radio 24, ha affermato che
non farà “mai uno spot con una famiglia omosessuale”. “Per noi – ha proseguito
– il concetto di famiglia sacrale rimane un valore fondamentale dell’azienda”;
“la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale”. E
ha concluso: “Se ai gay piace la nostra pasta e
la comunicazione che facciamo mangeranno la nostra pasta, se non piace faranno
a meno di mangiarla e ne mangeranno un'altra”
(si veda qui).
Guido Barilla |
Non mi impegnerò in una
dotta e noiosa confutazione del pensiero di Barilla, operazione già compiuta da
altri. Mi limiterò solo ad un paio di osservazioni: innanzitutto il concetto di
“famiglia sacrale”, che forse non è mai esistita, è contestabile; inoltre, la
seconda parte dell’intervista, dove Barilla afferma che i gay possono fare quel che vogliono “senza disturbare gli altri”, è non solo priva di misura e di
educazione, ma soprattutto arrogante per il fastidio nei confronti degli omosessuali
che traspare dalle parole. Barilla ha compiuto un autogol dal punto di vista
comunicativo, e uno scivolone dal punto di vista dello stile e delle buone
maniere. Di più non mi sembra proprio il caso di aggiungere.
Sia ben chiaro: ho sempre
sostenuto in modo convinto il diritto degli omosessuali a vivere come
preferiscono e ad avere gli stessi diritti degli eterosessuali. Pur ritenendo
discutibile la richiesta del movimento gay di poter avere figli (adottandoli o
ricorrendo all’ “utero in affitto”), tuttavia non ho motivi solidi da
contrapporre e mi rendo conto che se si parifica l’unione omosessuale a quella
etero, riconoscendole diritti civili e sostegni socio-economici come se si
trattasse di una “famiglia tradizionale”, prima o poi sarà inevitabile
consentire ai gay di diventare genitori. Detto questo, ciò che proprio non ho
digerito della vicenda Barilla è la reazione conformista che essa ha suscitato
in tutto il mondo occidentale.
Uno screenshot Twitter del boicottaggio contro Barilla |
Anche in questo caso
l’episodio è noto: il mondo gay è insorto gridando all’omofobia; sui social
network è stata subito condivisa l’iniziativa avviata in Twitter con l’hashtag
#boicottabarilla; Nichi Vendola ha affermato: “il battutismo come quello di
Barilla credo strizzi l’occhio ai peggiori stereotipi e pregiudizi che
appartengono alla peggiore ‘Italietta’”; Flavio Romani, Presidente di Arcigay,
ha rincarato la dose dichiarando che “se per il
signor Barilla le famiglie formate da gay e lesbiche non fanno parte della sua
tavola, siamo noi a voltargli le spalle e a scegliere altri prodotti,
culturalmente più sani e sicuramente più degni di stare sulle tavole degli
italiani”; infine Alessandro Zan, deputato di Sel ed esponente del movimento
gay, ha sparato il colpo di grazia: “Ecco un altro esempio di omofobia
all'italiana. Aderisco al boicottaggio della Barilla e invito gli altri
parlamentari […] a fare altrettanto. Io comunque avevo già cambiato marca. La
pasta Barilla è di pessima qualità” (per queste dichiarazioni si veda qui).
Nichi Vendola |
Neelie Kroes |
Tutto o
quasi tutto il mondo della politica, della cultura, dello spettacolo,
dell’associazionismo si è scagliato contro Barilla. Rare le eccezioni (e per lo
più provenienti da gruppi e partiti di centro-destra o di destra estrema: vedi
ancora qui). Su Twitter, nei due giorni successivi all’intervista, si è
letteralmente scatenato un linciaggio contro Barilla (vedi ad esempio qui), non
solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa e oltre Oceano. Neelie Kroes,
Vicepresidente della Commissione europea, ha scritto un altezzoso tweet:
“signor Barilla, molti dei miei migliori amici compravano la sua pasta”. I
giornali inglesi, francesi e tedeschi hanno dato grande rilievo al caso,
mostrando i limiti e l’anacronismo della cultura della classe dirigente
italiana e approfittandone per assestare una sonora legnata ad uno dei
principali esportatori di merci nei loro paesi.
Il massacro
è stato così ben congegnato che già il 27 mattina Barilla ha dovuto effettuare
una rettifica parziale, con questa dichiarazione (vedere ancora qui): “Mi scuso se le mie parole
hanno generato fraintendimenti o polemiche, o se hanno urtato la sensibilità di
alcune persone. Nell'intervista volevo semplicemente sottolineare la centralità
del ruolo della donna all'interno della famiglia […]il massimo rispetto per
qualunque persona, senza distinzione alcuna […] il massimo rispetto per i gay e
per la libertà di espressione di
chiunque”. Ha poi concluso con una frase che suona come una vera e propria
marcia indietro, sicuramente imposta da ragioni economiche più che etiche o
culturali: “Barilla nelle sue pubblicità rappresenta la famiglia perché questa
accoglie chiunque, e da sempre si identifica con la nostra marca”. Accoglie
chiunque, anche i gay, quindi.
Il
linciaggio globale mi è sembrato un vero e proprio esempio di tirannia della
maggioranza che diventa virale grazie al conformismo di Twitter e di Facebook:
i social network, anche in questo caso, hanno mostrato il loro lato peggiore,
ovvero la capacità di esaltare la naturale tendenza degli uomini ad adeguarsi alle
opinioni più diffuse. In altre parole, hanno dimostrato ancora una volta di
essere strumenti e veicoli di conformismo di massa, se utilizzati senza
intelligenza. Alla base del linciaggio contro Barilla, infatti, c’è un’opinione
comune globale che sta diventando “pensiero unico”.
Se intorno
alla metà del secolo XX l’omosessualità era considerata una perversione morale,
oppure una malattia mentale, dalla maggioranza della popolazione occidentale,
oggi la retorica pubblica ha imposto uno stereotipo del tutto opposto. Essere
gay, per l’opinione pubblica, è considerato oggi una scelta, un’opzione
esistenziale che si esercita in assoluta libertà e con piena consapevolezza. La
scelta omosex rientrerebbe, quindi, all’interno di quelle decisioni etiche
relative alla vita (come il divorzio, l’aborto, l’inseminazione artificiale, l’eutanasia;
ma anche le scelte politiche e religiose) che competono alla coscienza
individuale, non all’autorità (del potere, della Chiesa, della tradizione). La
coscienza del singolo uomo ha, secondo questo punto di vista, piena
disponibilità della vita, del corpo e della mente (in una parola dell’essere)
dell’individuo a cui appartiene; nessuno ha il potere di interferire con la
coscienza per spingerla a comportarsi in modo contrario alle sue deliberazioni.
Secondo alcuni esponenti del movimento LGBT (Lesbo, Gay, Bisex, Transex) anche
le scelte bi- e transex (o, meglio, transgender)
rientrerebbero in questa disponibilità assoluta dell’essere attribuita alla
coscienza individuale.
Il punto importante per
capire la vicenda Barilla è proprio qui, nell’affermazione del diritto assoluto
a scegliere, nella convinzione che in questioni di sesso ci si debba comportare
come nelle questioni di religione, ovvero: chi abbia ragione non si sa, ma
ognuno è libero di scegliere come la propria coscienza gli dice, senza
condizionamenti di alcun tipo. Bene, se le cose stanno così, essere etero o gay
non è necessità di natura né obbligo sociale, ma, appunto, opzione; opzione
anche condividere le scelte di chi diventa gay, fermo restando che occorre
rispettarle anche se le si avversa. Rientra nella piena disponibilità della
coscienza, quindi, decidere se opporsi sia privatamente che pubblicamente ad
una scelta che non si condivide, con l’unico limite di non impedire agli altri
di scegliere a loro volta ciò che vogliono.
Per queste ragioni, dedotte
dagli stessi assiomi condivisi dal movimento gay, Barilla ha piena libertà di
scegliere se pubblicizzare una famiglia omosessuale o una tradizionale: la sua
scelta è libera, come quella di chi la pensa in modo opposto a lui. Non
dovrebbe usare un linguaggio sprezzante e arrogante contro i gay, ma la sua
libertà di opzione deve restare sacrosanta per chiunque creda davvero nella
libertà di opinione. Liberi di non frequentare casa sua (e di non mangiare la
sua pasta), i gay e i sostenitori del movimento LGBT.
Invitare il mondo intero a
boicottare i prodotti della sua industria è invece un atto di intimidazione, un
ricatto che, con la pressione di milioni di clienti, intende imporre
all’incauto Presidente un’opinione che egli non condivide: minacciando di
arrecargli un danno economico, i boicottatori hanno intimato a Barilla di
ritrattare. Franco Grillini, Presidente di Gaynet Italia, lo ha detto
esplicitamente: “in molti paesi come gli Usa le
campagne per il 'boicot' hanno avuto un enorme successo […] consiglieremmo al
signor Guido una rapida marcia indietro se non vuole guai seri all'estero. In
ogni caso facciamo appello agli altri produttori di pasta a prendere le
distanze dalle infelici dichiarazioni del signor Barilla” (vedi qui). Invito
colto al volo dai concorrenti rivali, come ad esempio Buitoni.
Desta
impressione la capacità di mobilitazione planetaria del movimento gay. La
vicenda ha rivelato che ormai esiste un pensiero unico sull’omosessualità che
va via via imponendosi con la forza di una lobby organizzata. Non solo: esso
impone ciò che si deve dire e pensare circa le scelte sessuali, sia dei gay sia
degli etero. Il monopolio delle valutazioni su questo ambito è completamente
nelle mani di tale lobby. Finché il movimento gay si è battuto per affermare la
propria facoltà di scelta contro il volere della maggioranza, la sua forza ha avuto
il compito di difendere la libertà delle minoranze; ma nel momento in cui riesce
a zittire, con l’intimidazione, chi non la pensa come i suoi sostenitori, è
esso stesso a minacciare la libertà di espressione. Ieri erano i Barilla a
formare la maggioranza dispotica, mentre i gay erano la minoranza oppressa;
oggi è l’opposto: oggi non si può più contestare il movimento LGBT, neppure in
sede di discussione filosofica, perché si rischia l’accusa di omofobia. Non
solo: non è neppure possibile, per un personaggio pubblico, esprimere la
propria preferenza eterosessuale, perché, come minimo, gli viene riservato un
linciaggio mediatico. Sarebbe questo l'esito della libertà di espressione conquistata dai gay?
martedì 15 ottobre 2013
Segnalazioni
Antonio de Pereda y Salgado, Allegoria della Vanità (circa 1670) Ringrazio il sito The Philosopher's Cave |
Vanitas vanitatum (et omnia vanitas)! Sì, è sicuramente la vanità che mi spinge a cercare nuove occasione per pubblicare le mie riflessioni. Se per vanitas intendiamo una sensazione di pieno che si avverte dentro. Pieno di parole, pieno di concetti, pieno di ragionamenti e, non voglio dimenticarlo, pieno di letture. Sono, queste sensazioni di pienezza, esperienze che mi accompagnano da una vita ma che ora producono scelte che sento urgenti: urgente il desiderio di dire, urgente il desiderio di scrivere, urgente il desiderio di comunicare il mio pensiero. Forse avverto queste urgenze perché, in questo momento della mia vita, sento, come mai mi era accaduto prima, il tempo che si consuma, le ore che fuggono, i minuti che si dissipano... Sento che davanti a me è rimasto meno tempo di quel che ho dietro le spalle. Da qui, forse, deriva l'urgenza.
Questa confessione esistenziale "fuori registro" mi è servita per introdurre un'informazione che comunico ai miei venticinque lettori: dopo il mio debutto su Mentecritica con Frottole rosse (cui sono seguiti L'eredità dell'8 settembre e, tra breve, Libertà, stravaganze e democrazia) ho debuttato anche su Fanpage con Cattolicesimo all'italiana (che avrà un seguito tra pochi giorni). Leggetelo, poi mi direte.
Intanto fatemi gli auguri, perché non so se reggerò alle sfide che l'urgenza mi sta proponendo. Non so, insomma, se riuscirò a tener testa alla mia vanità...
domenica 6 ottobre 2013
Tersite ritorna. Le radici dell’impasse della politica italiana.
Dopo una lunga pausa eccomi di nuovo qui. Lavoro, famiglia e salute mi hanno bloccato per troppo tempo, ma non ho mai smesso di pensare a Tersite e ai miei venticinque lettori. E ora... si ricomincia!
Tre fattori di
gravità crescente
Forse apparirò ripetitivo,
ma credo che l’impasse in cui si trova il sistema politico italiano sia
riconducibile a tre fattori di gravità crescente. Gravità qui non ha un
significato morale (“serietà”, “preoccupazione”, “pericolosità”) ma indica più freddamente
una “misura”, cui allude l’etimologia stessa della parola: in latino
l’aggettivo gravis significa
“pesante”. Quindi, i fattori che elencherò hanno avuto appunto un “peso” via
via maggiore, un impatto sul sistema politico mano a mano più visibile, meno
imponderabile e, appunto, più “grave”.
Partiamo dal meno “grave”.
L’incapacità del Pd, e a suo tempo dei Ds, di mettere mano a quelle riforme che
avrebbero reso più moderna la nazione e le avrebbero forse evitato il baratro
presente. Indico tre riforme che nell’epoca del governo Prodi vennero
presentate come necessarie e imminenti: privatizzazioni e liberalizzazioni
autentiche; legge elettorale in senso maggioritario; severe norme sul conflitto
di interessi. A queste ne aggiungo una che era nelle possibilità del
centro-sinistra attuare e che avrebbe incontrato l’appoggio bipartisan di forze politiche
all’opposizione: la riforma della giustizia, comprendente la rigida separazione
delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, l’eleggibilità dei pm,
la responsabilità civile dei giudici. Questi interventi avrebbero forse
consentito di mettere mano in modo sereno a sostanziali riforme costituzionali.
I Ds non riuscirono ad
attuare quelle riforme quando avrebbero potuto, ovvero quando erano al governo;
il Pd non ha saputo fare di queste proposte i contenuti centrali delle sue
campagne elettorali, specie dell’ultima. Qualche perfido osservatore della
politica italiana ha commentato che il centro-sinistra non ha voluto realizzare
le riforme (specie quella sul conflitto d’interesse), per poter vivere di
rendita elettorale attraverso l’antiberlusconismo, ovvero: mantenendo in vita
il suo avversario avrebbe avuto un nemico a cui addebitare tutti i mali del
Paese. Non respingo del tutto questo punto di vista, ma faccio notare ai più
incalliti dietrologi che se l’ideologia antiberlusconiana è stata la bandiera
del centro sinistra negli ultimi vent’anni, è perché gli eredi del Partito
comunista non hanno avuto mai le idee chiare sul programma da seguire.
Realizzare le riforme che ho
elencato sopra avrebbe significato dichiararsi completamente fuori dall’area
della sinistra radicale e accettare una nuova e opposta identità politica:
diciamo socialdemocratica, se non proprio liberaldemocratica. Ma, com’è noto, i
Ds e il Pd hanno avuto e hanno tuttora paura di realizzare una rottura così
profonda con la tradizione rivoluzionaria, poiché l’elettorato “duro” della
vecchia sinistra non avrebbe compreso, mentre quella “movimentista” e
“antagonista” avrebbe definitivamente voltato le spalle al centro sinistra.
Entrambe queste cose sono poi accadute comunque, a causa dell’aggrovigliarsi
della condotta del Pd su molte questioni, tanto da rendere incomprensibile la
natura di questo partito: è di sinistra? Di centro? Liberale? Socialista?
Laburista?
Il
secondo grave fattore che ha generato l’attuale impasse politica è provenuto dai
partiti di Berlusconi (Forza Italia prima, Popolo della Libertà poi). Lo
chiameremo “fattore B”. A causa di esso si sono avute le seguenti conseguenze: la
forte identificazione del partito con il leader-padrone, anziché con l’ideologia;
la personalizzazione della politica, che ha svuotato di idee e contenuti le
proposte, sostituendole con l’appeal
del candidato e con la sua capacità di contrapporsi alla sinistra; l’antipoliticità
del leader, il quale si è sempre presentato al suo elettorato come alternativo
al mondo della politica, contrapponendo in tal modo la società civile (mitizzata)
alla politica (denigrata).
Il
centro destra ha vinto in questo modo i confronti più importanti con i rivali,
ma ha prodotto due esiti forse non voluti, ma oggi evidenti: ha contribuito come
nessun altro alla delegittimazione delle stesse istituzioni che governava; non
ha saputo formare un ceto politico dirigente capace di sostituire il carisma
del fondatore. Per questo oggi nel PdL sono in molti ad essere terrorizzati
dalla prospettiva di dover fare a meno di Berlusconi, perché non saprebbero con
quale altra figura vincente sostituirlo. Per questo, ancora, lo strappo attuato
da Alfano, soprattutto se dovesse produrre un nuovo soggetto politico, costituisce
una grande novità nel centro-destra.
Infine,
il “fattore B” ha condotto il centro destra a compiere un errore fatale: la profonda
rivoluzione liberale, promessa che nel 1994 fece drizzare le orecchie anche a
me, non solo non si è mai verificata, ma, possiamo dire oggi, non era neppure
nelle intenzioni del suo promotore. Al contrario, aver impiegato un personale
politico privo di qualità, privo di idee salvo la devozione per il capo, privo
di consapevolezza della ragion di Stato e delle necessità della società, attento
solo agli interessi di una parte di questa, ha prodotto faciloneria,
spregiudicatezza, assenza di scrupoli, corruzione. Gli scandali del 2011 (Ruby,
le “olgettine”, il bunga-bunga) sono stati solo la punta dell’iceberg: dietro
essi appare evidente che il ceto politico nato con Berlusconi è formato in buona
parte da individui emersi dalla più oscura provincia italiana, incolta, maneggiona,
eticamente discutibile.
Copertina Time del novembre 2011, quando Berlusconi venne travolto dagli scandali del bunga-bunga... |
Il
terzo grave fattore che ha generato l’attuale impasse politica è stato il
grillismo. Il M5S ha usato alcuni degli stili organizzativi e comunicativi di
Berlusconi (e della Lega): la forte identificazione con il capo-padrone; la
personalizzazione dell’agire politico; l’antipoliticità; la denigrazione delle
istituzioni e del mondo della politica. Tutto ciò, però, l’ha sostenuto con un’ideologia
molto definita che si può sintetizzare in due parole: moralismo fanatico.
Grillo e il suo movimento, infatti, hanno cavalcato l’indignazione dei cittadini,
hanno escluso ogni collaborazione con le altre forze, si sono chiusi in uno
sdegnoso isolamento, hanno trasformato i concetti morali in obiettivi politici
(pulizia, onestà, sottomissione al volere dell’io collettivo).
Twitter, recente hastag di tendenza avviato da Beppe Grillo |
Così
facendo, hanno collocato al centro dell’agire politico non l’osservazione della
realtà e lo studio delle soluzioni possibili ai suoi problemi, ma, appunto, i
valori morali, ostentati come patrimonio esclusivo del movimento. Perciò tutti
coloro che non appartengono al M5S sono considerati il male, quindi nemici da
annientare. Da questa ideologia discendono i metodi giacobini utilizzati dal leader
e dai suoi fedelissimi: la minaccia e l’intimidazione ottenute attraverso la
violenza verbale, l’insulto, il turpiloquio, la sobillazione della rabbia
popolare. L’impiego della Rete e il vessillo della democrazia diretta, da edificare
attraverso internet, hanno enfatizzato questi aspetti, e messo ancor più in
crisi le istituzioni, poiché da quell’impiego e da quel tema deriverebbero la
negazione del sistema rappresentativo, l’eliminazione della distinzione tra
governo e governati, la cancellazione della divisione dei poteri, l’affermazione
di un modello di governo impulsivo-populista-plebiscitario. Tutto ciò, com’è
evidente ormai, implicherebbe l’annientamento delle attuali istituzioni: per
questo il grillismo è stato l’attacco più pesante subito dalla Repubblica italiana
negli ultimi vent’anni.
Perché,
quindi, l’impasse di oggi? Perché tutte le attuali forze politiche italiane non
hanno idee per governare le sfide della globalizzazione; alcune non si
riconoscono nelle istituzioni che dovrebbero guidare, altre, infine, le denigrano
e usano l’intimidazione come strumento “antipolitico” di affermazione. Lo sbloccarsi
della vicenda del Cavaliere e la fine del “fattore B” non credo che porranno
davvero termine a questa impasse. Porterà, forse, un po’ di serenità,
sentimento che ci serve, in questo momento, per ragionare sine ira ac studio su ciò che serve all’Italia per uscire dal
pantano. Ma il fango che ci avvolge viene da lontano, sia dal punto di vista
temporale (la nostra storia) che da quello spaziale (le nuove potenze
economiche). In un simile contesto i sacrifici che dovremmo ancora fare per la ripresa,
la stabilità, il lavoro potrebbero essere ancora troppo onerosi e impopolari
per qualsiasi forza politica: e la pancia degli elettori, in una democrazia, si
sa che conta più della verità e dei fatti. Quale leader, quale partito o
movimento saprà affrontare la realtà senza farsene condizionare troppo?
giovedì 12 settembre 2013
Settantesimo anniversario dell'armistizio. Seconda parte
Seconda parte. L’eredità dell’8
settembre: la divisione permanente
Dopo l’8 settembre, l’Italia si trovò così ad essere governata da due
Stati: uno al Nord, guidato ancora da Mussolini ma sotto la protezione dei
nazisti; uno al Sud guidato ancora da Badoglio ma sotto la protezione degli Alleati.
L’Italia aveva perso l’unità e l’indipendenza in un sol colpo; per quanto possa
apparire indigesta e antiquata, la parola patria
va usata in questo contesto: ebbene, la patria
era perduta o, come ha messo in luce Galli della Loggia nel suo saggio, era morta, defunta.
L'Italia divisa tra 1943 e 1945 |
Mussolini passa in rassegna reparti della RSI |
Non soltanto era andata perduta l’unità politico-territoriale, ma le
antitesi nella società italiana divennero allora radicali, permeate di odio,
affidate alla violenza e all’uso delle armi. Furono soprattutto i giovani a
trovarsi di fronte a scelte tragiche.
I giovani neofascisti si sentirono traditi dal re, da
Badoglio, dai vecchi gerarchi fascisti che accusarono di debolezza. Condivisero
perciò l’ansia di riscossa del fascismo, ora repubblicano e rimasto fedele
all’alleato nazista. Oggi appare ovvia la contraddizione di questo
comportamento: i giovani “repubblichini” volevano la rinascita la nazione, ma perseguivano
questo scopo usando un mezzo, il protettorato germanico, che negava all’Italia
la possibilità di esistere come nazione. Ma allora, nella cornice di odio e di vendetta
che caratterizzò quella svolta storica, era forse meno ovvio comprendere il
significato di quelle scelte.
Una formazione partigiana |
I giovani che si diedero alla Resistenza furono animati dalla stessa
sindrome del tradimento. Si sentivano traditi da coloro che aveva condotto il
paese alla rovina: il re, le gerarchie militari, la borghesia e, naturalmente,
il fascismo che aveva svenduto il paese ai tedeschi. Questo spiega come mai
nella Resistenza furono decisamente maggioritarie le correnti antimonarchiche,
anticonservatrici e antiborghesi, minoritarie quelle monarchico-militari e
moderate, a differenza di altre resistenze europee, ad esempio quella francese.
Questo spiega la forza dei nuclei comunisti e azionisti che sul tema della
rinascita dell’Italia sulla base di una rivoluzione antiborghese e
anticonservatrice trovarono una decisa convergenza (Resistenza come
rivoluzione).
Palmiro Togliatti all'epoca del suo rientro in Italia (1944) |
Ma all’interno del fronte della Resistenza le fratture
c’erano, nonostante la convergenza di cui si è appena detto. I comunisti, che
si avvertivano come un’articolazione del fronte internazionale guidato da
Stalin, concepivano la Resistenza come una rivoluzione collettivistico-statalistica,
secondo l’esempio sovietico. Perciò per loro la vicenda nazionale non era altro
che un capitolo interno agli interessi prioritari dell’Urss e doveva adattarsi
anche alle scelte tattiche di quest’ultima. Come fu, ad esempio, l’arrivo di
Togliatti a Salerno e la svolta da lui compiuta (marzo 1944) entro il Pci e il
CLN: l’accantonamento della pregiudiziale istituzionale e la costituzione di un
nuovo governo Badoglio con la partecipazione dei partiti antifascisti (aprile
1944: primo governo di unità nazionale).
Tessera del Partito d'Azione (1946) |
Il Partito d’Azione, sorto nel 1942 dalle Brigate
partigiane di Giustizia e Libertà, aveva perseguito lo scopo di abbattere il
fascismo e di restituire la libertà all’Italia, costruendo quella repubblica
che non era mai sorta (donde il nome del Partito che si richiamava a quello di
Mazzini). La sua parola d’ordine era “rivoluzione democratica”, tuttavia in
esso convivevano almeno due anime: una radicale di orientamento socialista,
l’altra moderata di orientamento liberale. Sicché al crollo elettorale del 1946
seguì la diaspora: una parte degli “azionisti” confluì negli schieramenti socialisti
e comunisti, un’altra finì in quelli del riformismo laico.
Oltre alle correnti comunista e azionista, sicuramente
maggioritarie tra gli antifascisti, nella Resistenza vi erano altre due anime:
una moderata (cattolica) e una conservatrice (liberale e militar-monarchica),
entrambe minoritarie.
Sotto la proclamata unità delle forze antifasciste, si
agitava perciò una pluralità di organizzazioni dai contenuti ideologici e
politici assai diversi, sebbene la direzione unitaria fosse assicurata dai
Comitati di liberazione nazionali, espressioni locali dei partiti, e dal
Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia, organo superiore collegato al
governo del Sud.
La bandiera del CLN |
Significativa è poi un’altra frammentazione, anch’essa
destinata a durare dopo la Liberazione: quella dei riferimenti internazionali
delle forze operanti nella Resistenza. Tutte parlavano di Stato nazionale e
della necessità di ripristinarne la sovranità e l’unità, ma ognuno intendeva queste
cose come lo sbocco di un diverso percorso. I comunisti ritenevano
fondamentale, per la libertà e la sovranità nazionale, la vittoria dell’Urss; i
monarchici guardavano alla Gran Bretagna come baluardo per la nostra
indipendenza; i cattolici alla Chiesa, sebbene i repubblicani cattolici
puntassero di più sull’aiuto degli Usa per contenere le sinistre
filosovietiche. Senza riferimenti espliciti il P.d’A., che anche perciò fu più
debole rispetto agli altri partiti, vaso di coccio tra vasi di ferro. Sicché
l’unità della lotta al nazifascismo era solo apparente, poiché si stava già
preparando il terreno per la prossima dissoluzione della coesione: dopo un
biennio di residuale permanenza dell’unità, essa cedette nel biennio 1947-’48
ad una nuova contrapposizione frontale.
La Resistenza appare perciò segnata da due caratteri strettamente
legati che condizioneranno la storia della nascente repubblica: da un lato la
partitizzazione e dall’altro la doppia lealtà, quella dichiarata e ufficiale
(allo Stato nazionale); quella reale (ad un potere sovrannazionale o straniero).
28 aprile 1945: sfilata di partigiani (al centro, in borghese, si riconosce Pietro Secchia) |
Ma la più significativa divisione ereditata dalla
crisi della nazione avvenuta l’8 settembre è la nascita e la diffusione
dell’ideologia dell’antifascismo. Proprio le diverse appartenenze
internazionali nel dopoguerra produssero, sul tema dell’antifascismo, una
spaccatura insanabile all’interno del fronte che aveva combattuto nella
Resistenza.
Tra
i liberaldemocratici, ed anche in parte tra i socialdemocratici, il fascismo venne
letto come fenomeno storico circoscritto ad una determinata epoca, cosicché
anche l’antifascismo venne interpretato come esperienza circoscritta e
delimitata: sconfitto il fascismo, l’opposizione ad esso divenne per i
liberaldemocratici parte di un più generale antitotalitarismo che ora aveva
come nemico il comunismo. In ambito comunista, invece, l’antifascismo assunse
un significato metastorico: un’ideologia che da un lato sosteneva essere il
fascismo non ancora sconfitto, bensì sempre in agguato e risorgente, dal
momento che esso era ritenuto tutt’uno con il capitalismo (che non era affatto
venuto meno); dall’altro lato questa ideologia divenne per la cultura comunista
sinonimo di democrazia: se si è antifascisti si è anche democratici; perciò chi
si professa comunista, in quanto antifascista è anche ascritto di diritto
all’ambito della democrazia; chi si professa anticomunista è antidemocratico e
oggettivamente fa il gioco del fascismo.
La
logica conseguenza di questa equazione fu la condanna, da parte della cultura
comunista, di ogni posizione politica e intellettuale che non fosse orientata
verso l’ideologia antifascista intesa nel senso sopra detto. In tal modo
l’antifascismo costituì nel dopoguerra italiano l’elemento politico-ideologico
che produsse più divisione e più discordia. Esso si sostituì al concetto di
nazione e diventò il valore dominante della politica italiana per decenni. Le
parole “patria” e “nazione”, bandite dal linguaggio pubblico e sostituite
dall’anodino termine “paese”, furono considerate sintomi del permanere di
sentimenti fascisti.
La
disgregazione dell’Italia avvenuta l’8 settembre aveva così sepolto i pochi
valori di coesione nazionale costruiti dal Risorgimento, mentre le nuove forze
politiche uscite dalla Resistenza, Pci e Dc, insensibili o poco interessate a
quei valori (non dimentichiamo che cattolicesimo e marxismo sono culture con
vocazione ecumenica, sovrannazionale), cercarono di sostituire ad essi, quali
elementi di coesione nazionale, l’appartenenza al partito e la fedeltà alla sua
ideologia: anziché l’adesione alla nazione, all’italiano del dopoguerra venne
proposta l’iscrizione al partito.
Campagna elettorale della DC per le elezioni del 18 aprile 1948 |
L’identità
partitica di per sé è “divisiva”, conflittuale, non inclusiva. Perciò la
politica italiana, avendo smarrito il riferimento comune ai valori e agli
interessi nazionali, divenne litigiosa, faziosa, ideologica. Se l’Italia in un
simile contesto di alta conflittualità politico-partitica riuscì a
sopravvivere, ciò fu dovuto a due fattori concomitanti: il sostegno
nordamericano (con la conseguente “sovranità limitata”); la minaccia del
comunismo (che donò alla Dc quasi 50 anni di egemonia). Venuti meno questi
fattori e dissoltasi la classe politica repubblicana che aveva governato grazie
ad essi, dagli anni Novanta in poi sono riemerse le vecchie insufficienze e le divisioni
tipiche di una fragile identità nazionale. Le nuove classi dirigenti (quelle
della cosiddetta Seconda repubblica) incapaci di ricostruire l’appartenenza
alla nazione, si sono dedicate con rapacità al perseguimento del lucro: hanno
così esaltato quel carattere “divisivo” che la catastrofe dell’8 settembre 1943
ha lasciato in eredità ai nostri tempi.
Il
superamento di questo carattere dovrebbe passare attraverso una rivalutazione
del legame nazionale tra i cittadini della Repubblica. Ma ogni tentativo
rischia di apparire demodé: l’epoca
attuale indica come orizzonte della futura cittadinanza la dimensione del continente,
o quella del globo. Così, proiettati in una prospettiva mondiale senza essere mai
stati parte di un contesto condiviso di valori nazionali, gli italiani (se ha ancora
un senso usare questo termine) si apprestano a recitare il ruolo degli
individui eterodiretti per eccellenza: senza valori laici nei quali credere, deraciné privi di anima, sorretti solo
dal proprio amaro cinismo. (2-fine)
Alberto Sordi, nei panni di Nando Mericoni, nella celebre scena degli spaghetti in Un americano a Roma (regia di Steno, 1954) |
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