Prima parte: La catastrofe
dell’8 settembre. Gli eventi
I generali Giuseppe Castellano (in borghese) e Dwight Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell'armistizio |
L’8 settembre 1943 venne annunciato l’armistizio
firmato dall’Italia con gli Alleati. Come vedremo, la data merita un posto
importante nella storia italiana, se non altro perché dagli eventi drammatici
che allora si verificarono spira tuttora un’aria mefitica, che avvelena la
nazione. Nei post dedicati al 25 luglio (qui e qui), ho raccontato la vicenda che condusse,
dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia, alla deposizione di Mussolini e alla
sua sostituzione con il Maresciallo Pietro Badoglio. Da quel punto riprendiamo
la nostra narrazione.
Assunto il ruolo di capo del governo in quel frangente
drammatico, Badoglio si trovò di fronte a tre possibilità. 1) Il mantenimento
effettivo dell’alleanza con i tedeschi, possibilità che si presentava come
irrealizzabile, soprattutto per la generale impopolarità che aveva la
prosecuzione della guerra. 2) L’uscita dal conflitto, la denuncia dell’alleanza
con la Germania, la mobilitazione delle energie antifasciste, l’impiego
dell’esercito per soffocare la resistenza fascista e per la difesa alpina dalla
Germania, in attesa dell’arrivo in forze degli aiuti alleati: in sostanza il
piano ipotizzato da Dino Grandi. Si trattava di una scelta molto rischiosa,
perciò fu scartata o forse neppure considerata: la sua realizzazione avrebbe
richiesto l’appoggio delle masse e di tutte le forze politiche al governo e non;
occorreva contare, insomma, su energie, coraggio e mezzi che forse l’Italia non
aveva. Di certo l’opzione non rientrava tra quelle suggerite a Badoglio dalla
sua indole prudente. 3) Infine, vi era la possibilità di condurre il doppio gioco
tra alleati e tedeschi, di rinunciare a raccogliere le restanti risorse
militari e di porre la difesa degli interessi monarchici al di sopra di tutto:
fu questa la strada seguita.
Nel far decidere in tal senso ebbe un ruolo anche la paura:
gli uomini al governo temevano le reazioni dei tedeschi, ma non si fidavano del
tutto neppure degli alleati; inoltre erano preoccupati per il comportamento delle
masse e per quello delle forze antifasciste. Perciò la frase “la guerra
continua”, inserita nel testo del comunicato al Paese del 26 luglio, sembra un
espediente per guadagnare tempo, nella speranza che qualche evento favorevole
dissipasse almeno uno di questi timori. Purtroppo il doppio gioco gettò il
paese nella catastrofe dell’8 settembre e nella ferocia della guerra civile,
provocando per due anni la divisione territoriale della nazione.
Il Feldmaresciallo Albert Kesselring (1885-1960) |
Le vicende legate all’armistizio sono complesse. Tra
agosto e settembre 1943 Badoglio chiese agli Alleati, i quali respinsero la
richiesta, di effettuare uno sbarco nei pressi di Roma per tutelare la capitale
da eventuali rappresaglie tedesche (le forze di Kesselring erano massicciamente
presenti intorno a Roma). Gli Alleati promisero soltanto un lancio di parà
sulla città. Intanto, in previsione dell’armistizio, lo Stato Maggiore diramò
istruzioni su come comportarsi in caso di attacco tedesco. Ma, come vedremo, la
genericità delle disposizioni e l’inammissibile ritardo con cui venne diramato
l’ordine di metterle in esecuzione provocarono, dopo l’annuncio
dell’armistizio, lo sbandamento dell’esercito. La firma dell’armistizio avvenne
il 3 settembre presso Siracusa, a Cassìbile, tra il generale Castellano e il
generale Bedell Smith. Fu denominato “armistizio corto” (per distinguerlo da
quello lungo stipulato il 29 settembre a Malta) perché i 12 punti in cui era
articolato contenevano solo le clausole militari: l’Italia si impegnava a
deporre le armi e a cessare la collaborazione con la Germania, nonché a mettere
il territorio italiano liberato sotto amministrazione militare alleata e a
consegnare flotta e aerei. Infine vi si prevedeva che l’annuncio
dell’armistizio da parte alleata sarebbe stato dato sei ore prima di
un’operazione anfibia da effettuarsi a sud di Roma (sarebbe avvenuta a Salerno
il 9 settembre); subito dopo l’Italia avrebbe dovuto annunciare l’armistizio.
Ma l’8 settembre Badoglio informò Eisenhower che la presenza dei tedeschi
attorno Roma impediva l’effettuazione di quest’ultima clausola. Il generale
americano rispose con durezza: comunicò unilateralmente il messaggio alle 16.30
tramite Radio New York e annullò il promesso lancio di paracadutisti sulla
capitale. Sicché Badoglio fu costretto a dare il proprio annuncio verso le
19.45, con toni ambigui (si affermava che, nonostante l’armistizio con gli
anglo americani, “le forze italiane di ogni luogo [hanno l’ordine di reagire] a
eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”), senza precisare cosa
avrebbe dovuto fare l’esercito nei confronti delle truppe tedesche, e senza
diramare ordini tempestivi ai comandi militari.
Nella notte la famiglia reale e il governo si
trasferirono a Pescara e da lì a Brindisi che era già in mano alleata. Roma
cadde in mano tedesca il 9 settembre, dopo un breve urto con la divisone Ariete
comandata da Raffaele Cadorna. Contemporaneamente scattò il piano tedesco per
l’occupazione del nord Italia. Lo stesso giorno vide la nascita a Roma dei
Comitati nazionali di Liberazione che lanciarono l’appello per la lotta armata,
sicché da questa data si è soliti far cominciare la Resistenza. Tra i primi
episodi da ricordare vi furono i combattimenti di Porta San Paolo nella
capitale: alla mancata difesa di Roma, si contrappose l’eroica resistenza di
civili e soldati sbandati, che cercarono di opporsi all’entrata in città delle
divisioni corrazzate tedesche.
Soldati italiani catturati dai tedeschi dopo l'armistizio |
L’evento più importante dopo l’armistizio fu comunque
lo sbandamento dell’esercito che, privo di disposizioni, si liquefece come neve
al sole: almeno 500.000 soldati furono fatti prigionieri dai tedeschi; oltre
150.000 accettarono di combattere per loro; alcuni si aggregarono in unità
partigiane; altri nell’esercito del Corpo italiano di liberazione che, dopo il
13 novembre, quando il governo Badoglio si decise a dichiarare guerra alla
Germania, combatté come “cobelligerante” a fianco degli Alleati (combatté fra
l’altro a Mignano di Montelungo, in uno dei settori più difficili della linea
Gustav, quello di Cassino, che sarà sfondato solo nel giugno del 1944); altri,
infine, disertarono semplicemente. Il disfacimento dell’esercito italiano si
accompagna a quello delle strutture statali. Il governo di Badoglio, in base
all’armistizio di Malta, amministrò, sotto la vigilanza della Commissione
Alleata di Controllo, solo la Puglia, mentre il resto del sud liberato fu retto
dal Governo Militare Alleato fino allo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944). Quest’ultimo
evento, oltre alla liberazione di Napoli (1° ottobre 1943), consentì al governo
e al re di trasferirsi a Salerno e di ampliare la propria giurisdizione, seppure
sotto il controllo della ACC. Il disfacimento dell’esercito consentì ai
tedeschi di agire liberamente nel nord Italia: qui essi, dopo aver liberato
Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso (12 settembre 1943), faranno risorgere
lo stato fascista, denominato Repubblica Sociale Italiana, con capitale Salò. Con
l’occupazione tedesca iniziarono le durissime rappresaglie contro la
popolazione per scardinare la Resistenza partigiana che stava sorgendo nelle
regioni settentrionali (tra gli eventi più cruenti ricorderò quello di
Sant’Anna di Stazzema, in Versilia, dell’agosto ’44, quello delle Fosse
Ardeatine del marzo ’44, quello di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, del
settembre dello stesso anno). Un’altra nota conseguenza dell’8 settembre fu la disperata
resistenza da parte di quelle truppe italiane che non vollero cedere le armi, i
reparti più combattivi, quelli che si trovavano ancora fuori dai confini nazionali.
Mi limito a menzionare quello dell’isola di Cefalonia del 22 settembre 1943, di
cui tanto si è parlato negli anni della Presidenza Ciampi che ha avuto il merito
di rivalutare l’evento come il primo episodio della Resistenza italiana: a
Cefalonia vennero massacrati quasi 8000 uomini della divisone Acqui che
rifiutarono di consegnarsi ai tedeschi.
«L’elemento storico decisivo dell’8 settembre – ha scritto
Galli della Loggia – [...] non sta nel fatto,
ma nel come» (Ernesto Galli della
Loggia, La morte della Patria. La crisi
dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari,
Laterza, 1996, p. 18). È il come ad essere memorabile. Se infatti si escludono
casi eccezionali, la cui eccezionalità conferma appunto che la regola fu
un’altra, il dileguarsi di tutto e di tutti nel frangente dell’8 settembre
testimonia «di un che di aleatorio, [...] di occasionale che starebbe alle
fondamenta dell’edificio statale italiano» (Ivi, p. 15). La stessa cosa non è
successa negli altri paesi che hanno subito sconfitte. Non è successa in
Germania, ad esempio, la cui sconfitta è stata senz’altro più netta e più
dolorosa di quella italiana, senza attenuanti e senza vie di mezzo, come quella
del rango, già di per sé umiliante, di “cobelligeranti” cui ci relegarono gli
anglo-americani dopo l’8 settembre. In Germania, nel momento del crollo
militare, esercito e amministrazione mostrarono una grande capacità di
padroneggiare gli eventi, di evitare che la sconfitta si trasformasse in un
dileguarsi generale: e di ciò non si può dare merito al solo nazismo, ma
soprattutto alla tenuta della compagine nazionale. Al contrario, in Italia ciò
che accadde dopo quella fatidica data mostra «la crisi della nazione, la sua
inettitudine a reggere le prove, la gracilità insospettata del vincolo di
appartenenza comunitario, la forza irreprimibile [che hanno invece] gli egoismi
e le viltà individuali» (Ivi, p. 12). Per questo secondo alcuni storici (Renzo De
Felice, soprattutto, ma dopo di lui altri come Galli della Loggia ed Elena
Aga-Rossi), con l’8 settembre, o meglio con tutti gli eventi del 1943, sarebbe
venuto meno qualcosa di più del regime fascista: si sarebbe persa, con il
crollo dell’unità del paese e della compagine statale, la fragile identità
nazionale. (1 – continua)
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