Si può governare
con Twitter?
Nel precedente post mi
chiedevo se è possibile governare il mondo con Twitter. Oggi proverò a dare una
prima risposta, ma la questione meriterà in futuro altri interventi e nuove
riflessioni. Del resto, chi mi segue sa che al rapporto tra media, politica e
cultura ho già dedicato ampio spazio in passato.
Circa un anno fa, il
columnist del New York Times Thomas
Friedman scrisse un editoriale molto illuminante per la comprensione del rapporto
tra social network e politica: The Rise of Popularism (New York Times, 23
giugno 2012). Eppure l’articolo non ha goduto di grande attenzione in Europa, o
perlomeno non ne ha goduto in Italia: che sappia io, nel nostro Paese è stato
ricordato di recente solo da Federico Mello sull’Huffingtonpost (F. Mello, Con Twitter non si governa un Paese, Huffingtonpost, 25 luglio 2013), grazie al quale sono venuto a conoscenza dell’editoriale in
questione.
Friedman si chiede come mai
in Europa (ma anche negli Usa) non ci sia una leadership politica capace di
ispirare e preparare le popolazioni alle sfide che le attendono. Egli individua
due ragioni: una tecnologica e una generazionale. Riguardo a quest’ultima l’osservazione
dell’autore è perentoria ma realistica: siamo passati da una generazione che
credeva nel futuro e che, quindi, ha risparmiato per poter investire (è la
generazione di chi è vissuto durante la guerra), ad una generazione (quella del
baby boom) che ha preferito prendere
i soldi in prestito per spenderli subito, poiché, evidentemente, non aveva fiducia
nel futuro. Friedman porta l’esempio del confronto tra George Bush padre e George
Bush figlio: il primo si è temprato nel corso della seconda guerra mondiale per
la quale partì volontario subito dopo Pearl Harbour, e completò la sua
formazione di leader durante la guerra fredda, quando occorrevano determinazione
e fermezza, quando non si potevano prendere decisioni ascoltando i sondaggi.
Bush senior, ad esempio, come Presidente alzò le tasse, malgrado l’opposizione
del ceto medio, perché gli Stati Uniti avevano una guerra da affrontare (quella
del Golfo) e la prudenza, non i sondaggi d’opinione, richiedevano quella
scelta. Bush figlio, nato e vissuto nell’epoca della pace e del benessere, non
ebbe lo stesso tirocinio paterno ed era più incline ad ascoltare la voce dei
sondaggi. Sicché tagliò le tasse nel bel mezzo non di una, ma di due guerre:
quella in Afghanistan e quella in Iraq.
Collegata a quella
generazionale, come vedremo, è la spiegazione tecnologica fornita da Friedman.
Il columnist si chiede, sulla scia della legge di Gordon Moore (cofondatore di
Intel il quale, nel 1965, affermò che la potenza di elaborazione di un singolo
microchip sarebbe raddoppiata ogni 18-24 mesi), se le capacità di guida politica
delle leadership non si riducano ogni 100 milioni di nuovi utenti che si
iscrivono a Facebook e Twitter. Indubbiamente la diffusione dei social media ha
molti aspetti positivi: più innovazione, più trasparenza, più partecipazione.
Ma, si chiede ancora Friedman, è possibile che si sia prodotta troppa
partecipazione? È possibile che i leader politici, a forza di stare sempre in
ascolto delle voci e delle tendenze che si sviluppano in Rete ogni istante,
rimangano prigionieri di esse e perdano la capacità di dirigere, di suscitare, e
soprattutto di decidere?
In effetti, scrive Friedman,
in Occidente, specie in Europa, sembra essersi sviluppata una über-ideologia denominata “popolarismo”.
Essa consiste in primo luogo nel mostrarsi aggiornati sulle tendenze, sui sondaggi,
sulle mode della Rete, e in secondo luogo nel cercare di assecondarle e di
seguirle. Anche Mitt Romney e Barak Obama, durante la campagna elettorale del
2012, persero molto tempo a “mitragliarsi a vicenda” di tweet, cercando di
apparire più informati dell’avversario su ciò che si diceva in Rete, senza
proporre una nuova idea per affrontare i seri problemi del momento. Non solo.
Visto che grazie agli smart phone ogni oscuro individuo del pianeta può
improvvisarsi paparazzo, reporter, opinion maker, tutti i personaggi pubblici
sono fortemente esposti al rischio di venir colti in fallo per un nonnulla e di
essere ridicolizzati in Rete. Alexander Downer, ex primo ministro australiano,
confidò a Friedman che è proprio questo che “sta rendendo sempre più difficile”
per i dirigenti “prendere decisioni sensate e coraggiose”. La vita pubblica,
per molti potenziali leader, è diventata qualcosa da fuggire a tutti i costi:
come accadde nel III secolo d. C. nella società romana, quando il patriziato
preferì fuggire dalle città, diventate difficili da governare, in preda a plebi
volubili e a clientes costosi. Cominciò
così la decadenza dell’Impero.
Per queste ragioni, conclude
Friedman, anziché dire la verità sulla realtà che stiamo vivendo, i leader di
oggi preferiscono soddisfare le aspettative attuali del pubblico: quest’ultimo
vorrebbe lavorare e pagare di meno, ma consumare e spassarsela di più; la
realtà, invece, richiederebbe investimenti sul futuro che comportano più
fatica, più studio, più ingegno e meno narcisismo, se si vuole tenere il passo
dei tempi. I leader dovrebbero dire la verità su questo, ma ciò richiederebbe
straordinaria capacità di comando e anche disponibilità ad assumere decisioni
impopolari.
Veniamo qui al punto da cui sono
partito: si può governare il mondo con Twitter? La mia risposta è perlomeno
problematica: sì, se i leader fossero capaci, dopo essere stati informati
(anche) dalla Rete riguardo al volere popolare, di prendere decisioni autonome
ed anche dolorose per risolvere i problemi; no, se essi scambiamo quella
volontà per le soluzioni dei problemi. Anzi, in questo secondo caso Twitter
(come ogni altro strumento di Internet) rischia di essere controproducente: il
mondo, specie quello occidentale, ha bisogno di decisioni affinché nel futuro i
nostri figli possano vivere bene, almeno come noi abbiamo vissuto; non ha
bisogno, invece, di inseguire le fluttuazioni inconcludenti e narcisistiche del
“popolarismo”. Chi sceglie di fare il leader deve saper guidare e saper decidere.
Non cercare di essere popolare.
La questione generazionale e
quella tecnologica mi sembrano collegate. I baby
boomers, nati tra il 1945 e l’inizio
degli anni Sessanta, hanno occupato e tuttora occupano ruoli di responsabilità,
nonché posti di lavoro tutelati e spesso ben remunerati, grazie ai quali hanno potuto
condurre un’esistenza sufficientemente sicura nella stragrande maggioranza dei
casi, benestante o ricca in altri. In genere si tratta di posizioni conquistate
con duro studio e lavoro, non dimentichiamo che chi ha oggi tra i 50 e i 70
anni costituisce nel mondo occidentale la prima generazione del secondo dopoguerra
interamente (o quasi) scolarizzata. La formazione scolastica fu caotica, ma
dura e ancora severa in molti casi. Lo stesso lavoro è stato ottenuto
attraverso percorsi selettivi talvolta faticosi e persino costosi: permanenze
fuori casa per anni, a proprie spese, pendolarismo, mancanza o insufficienza di
servizi pubblici. Alla fine, però, studio e lavoro, affrontati con la fiducia
in un futuro migliore, hanno prodotto risultati soddisfacenti. Perché i baby boomers
dovrebbero abbandonare questi traguardi? Perciò chi governa, spesso
appartenente alla medesima generazione, preferisce blandire costoro, piuttosto
che chiedergli sacrifici per i loro figli. Dovrebbero essere i leader, invece,
a far capire che i giovani di oggi rischiano domani di non avere lo stesso
tenore di vita dei padri, poiché le risorse dell’Occidente si stanno riducendo
a vantaggio di altre regioni del mondo. Così, narcisismo, debolezza e
tecnologia si sono alleati per produrre l’irresponsabilità delle leadership
politiche.
Probabilmente la recente proposta
avanzata, proprio su Twitter, dal giovane economista Riccardo Puglisi, ha un
valore puramente provocatorio. Egli sostiene che in Italia occorra “rottamare”
la generazione dei “sessantottini”, grosso modo coincidente con i nostri baby boomers. Io stesso, sebbene nato al
limite di quell’epoca e sebbene fossi ancora fanciullo durante la contestazione
giovanile, non ho accolto di buon grado la provocazione, figuriamoci chi ha
qualche più di me. Eppure, devo riconoscere qualche ragione a Puglisi: forse quella
della rottamazione è un’immagine troppo forte, ma è pur vero che se vogliamo
continuare a sperare nel futuro dobbiamo lasciare un po’ di spazio alle idee
dei giovani. Purché non abbiamo appreso dai loro padri ad inseguire le Trending Topic mondiali: se vogliono
davvero governare devono imparare a farlo con coraggio, non tallonando l’omologazione.
Perché, come ha scritto Friedman nell’articolo di cui ho riferito, se tutti stanno
seguendo, se ognuno è follower di
qualcun altro, chi si sobbarca l’onere di condurre?
La nostra generazione si rottamerà da sola per età, in ogni caso chi oggi è arrivato a posizioni di responsabilità (ed è ancora attivo) è perché è già sceso a parecchi compromessi col potere, altrimenti non sarebbe lì. I giovani che li hanno già in parte sostituiti vogliono semplicemente continuare a godere di rendite di posizione e continuare a spassarsela. In conclusione non abbiamo alcuna leadership politica; ma solo sudditi, così in alto come in basso.
RispondiEliminaRiguardo ai posti di lavoro sì, è vero, la nostra generazione si rottamerà da sola, quando e se ci manderanno in pensione. Riguardo ai posti in politica, fino allo scorso anno avevamo la classe politica più vecchia e più longeva d'Europa. Stessa cosa per i dirigenti delle aziende. Credo sia in questi ruoli che il turn over generazionale si sia bloccato da anni. Poi, che i nostri giovani vogliamo continuare a spassarsela e che non vogliano crescere lo vedo con i miei occhi tutti i giorni. Ma forse un po' di colpa l'abbiamo anche noi. Non ricordo chi ha scritto che i giovani sono sempre lo specchio degli adulti: in essi si sommano i vezzi, i tic, gli errori educativi dei più anziani che li hanno cresciuti. Naturalmente vi si rispecchiano anche le virtù. Ma forse oggi è con i nostri errori che dobbiamo fare i conti.
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