sabato 7 settembre 2013

Settantesimo anniversario dell'Armistizio: 8 settembre 1943

Prima parte: La catastrofe dell’8 settembre. Gli eventi

I generali Giuseppe Castellano (in borghese) e Dwight Eisenhower
si stringono la mano dopo la firma dell'armistizio

L’8 settembre 1943 venne annunciato l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati. Come vedremo, la data merita un posto importante nella storia italiana, se non altro perché dagli eventi drammatici che allora si verificarono spira tuttora un’aria mefitica, che avvelena la nazione. Nei post dedicati al 25 luglio (qui e qui), ho raccontato la vicenda che condusse, dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia, alla deposizione di Mussolini e alla sua sostituzione con il Maresciallo Pietro Badoglio. Da quel punto riprendiamo la nostra narrazione.

Assunto il ruolo di capo del governo in quel frangente drammatico, Badoglio si trovò di fronte a tre possibilità. 1) Il mantenimento effettivo dell’alleanza con i tedeschi, possibilità che si presentava come irrealizzabile, soprattutto per la generale impopolarità che aveva la prosecuzione della guerra. 2) L’uscita dal conflitto, la denuncia dell’alleanza con la Germania, la mobilitazione delle energie antifasciste, l’impiego dell’esercito per soffocare la resistenza fascista e per la difesa alpina dalla Germania, in attesa dell’arrivo in forze degli aiuti alleati: in sostanza il piano ipotizzato da Dino Grandi. Si trattava di una scelta molto rischiosa, perciò fu scartata o forse neppure considerata: la sua realizzazione avrebbe richiesto l’appoggio delle masse e di tutte le forze politiche al governo e non; occorreva contare, insomma, su energie, coraggio e mezzi che forse l’Italia non aveva. Di certo l’opzione non rientrava tra quelle suggerite a Badoglio dalla sua indole prudente. 3) Infine, vi era la possibilità di condurre il doppio gioco tra alleati e tedeschi, di rinunciare a raccogliere le restanti risorse militari e di porre la difesa degli interessi monarchici al di sopra di tutto: fu questa la strada seguita.

Nel far decidere in tal senso ebbe un ruolo anche la paura: gli uomini al governo temevano le reazioni dei tedeschi, ma non si fidavano del tutto neppure degli alleati; inoltre erano preoccupati per il comportamento delle masse e per quello delle forze antifasciste. Perciò la frase “la guerra continua”, inserita nel testo del comunicato al Paese del 26 luglio, sembra un espediente per guadagnare tempo, nella speranza che qualche evento favorevole dissipasse almeno uno di questi timori. Purtroppo il doppio gioco gettò il paese nella catastrofe dell’8 settembre e nella ferocia della guerra civile, provocando per due anni la divisione territoriale della nazione.
 
Castellano mentre firma. Alle sue spalle
il gen. Bedell-Smith

Il Feldmaresciallo
Albert Kesselring (1885-1960)
Le vicende legate all’armistizio sono complesse. Tra agosto e settembre 1943 Badoglio chiese agli Alleati, i quali respinsero la richiesta, di effettuare uno sbarco nei pressi di Roma per tutelare la capitale da eventuali rappresaglie tedesche (le forze di Kesselring erano massicciamente presenti intorno a Roma). Gli Alleati promisero soltanto un lancio di parà sulla città. Intanto, in previsione dell’armistizio, lo Stato Maggiore diramò istruzioni su come comportarsi in caso di attacco tedesco. Ma, come vedremo, la genericità delle disposizioni e l’inammissibile ritardo con cui venne diramato l’ordine di metterle in esecuzione provocarono, dopo l’annuncio dell’armistizio, lo sbandamento dell’esercito. La firma dell’armistizio avvenne il 3 settembre presso Siracusa, a Cassìbile, tra il generale Castellano e il generale Bedell Smith. Fu denominato “armistizio corto” (per distinguerlo da quello lungo stipulato il 29 settembre a Malta) perché i 12 punti in cui era articolato contenevano solo le clausole militari: l’Italia si impegnava a deporre le armi e a cessare la collaborazione con la Germania, nonché a mettere il territorio italiano liberato sotto amministrazione militare alleata e a consegnare flotta e aerei. Infine vi si prevedeva che l’annuncio dell’armistizio da parte alleata sarebbe stato dato sei ore prima di un’operazione anfibia da effettuarsi a sud di Roma (sarebbe avvenuta a Salerno il 9 settembre); subito dopo l’Italia avrebbe dovuto annunciare l’armistizio. Ma l’8 settembre Badoglio informò Eisenhower che la presenza dei tedeschi attorno Roma impediva l’effettuazione di quest’ultima clausola. Il generale americano rispose con durezza: comunicò unilateralmente il messaggio alle 16.30 tramite Radio New York e annullò il promesso lancio di paracadutisti sulla capitale. Sicché Badoglio fu costretto a dare il proprio annuncio verso le 19.45, con toni ambigui (si affermava che, nonostante l’armistizio con gli anglo americani, “le forze italiane di ogni luogo [hanno l’ordine di reagire] a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”), senza precisare cosa avrebbe dovuto fare l’esercito nei confronti delle truppe tedesche, e senza diramare ordini tempestivi ai comandi militari.
 
Il Messaggero del 9 settembre 1943
Nella notte la famiglia reale e il governo si trasferirono a Pescara e da lì a Brindisi che era già in mano alleata. Roma cadde in mano tedesca il 9 settembre, dopo un breve urto con la divisone Ariete comandata da Raffaele Cadorna. Contemporaneamente scattò il piano tedesco per l’occupazione del nord Italia. Lo stesso giorno vide la nascita a Roma dei Comitati nazionali di Liberazione che lanciarono l’appello per la lotta armata, sicché da questa data si è soliti far cominciare la Resistenza. Tra i primi episodi da ricordare vi furono i combattimenti di Porta San Paolo nella capitale: alla mancata difesa di Roma, si contrappose l’eroica resistenza di civili e soldati sbandati, che cercarono di opporsi all’entrata in città delle divisioni corrazzate tedesche.
 
Combattimenti di Porta San Paolo, 9-10 settembre 1943

Soldati italiani catturati dai tedeschi
dopo l'armistizio

L’evento più importante dopo l’armistizio fu comunque lo sbandamento dell’esercito che, privo di disposizioni, si liquefece come neve al sole: almeno 500.000 soldati furono fatti prigionieri dai tedeschi; oltre 150.000 accettarono di combattere per loro; alcuni si aggregarono in unità partigiane; altri nell’esercito del Corpo italiano di liberazione che, dopo il 13 novembre, quando il governo Badoglio si decise a dichiarare guerra alla Germania, combatté come “cobelligerante” a fianco degli Alleati (combatté fra l’altro a Mignano di Montelungo, in uno dei settori più difficili della linea Gustav, quello di Cassino, che sarà sfondato solo nel giugno del 1944); altri, infine, disertarono semplicemente. Il disfacimento dell’esercito italiano si accompagna a quello delle strutture statali. Il governo di Badoglio, in base all’armistizio di Malta, amministrò, sotto la vigilanza della Commissione Alleata di Controllo, solo la Puglia, mentre il resto del sud liberato fu retto dal Governo Militare Alleato fino allo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944). Quest’ultimo evento, oltre alla liberazione di Napoli (1° ottobre 1943), consentì al governo e al re di trasferirsi a Salerno e di ampliare la propria giurisdizione, seppure sotto il controllo della ACC. Il disfacimento dell’esercito consentì ai tedeschi di agire liberamente nel nord Italia: qui essi, dopo aver liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso (12 settembre 1943), faranno risorgere lo stato fascista, denominato Repubblica Sociale Italiana, con capitale Salò. Con l’occupazione tedesca iniziarono le durissime rappresaglie contro la popolazione per scardinare la Resistenza partigiana che stava sorgendo nelle regioni settentrionali (tra gli eventi più cruenti ricorderò quello di Sant’Anna di Stazzema, in Versilia, dell’agosto ’44, quello delle Fosse Ardeatine del marzo ’44, quello di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, del settembre dello stesso anno). Un’altra nota conseguenza dell’8 settembre fu la disperata resistenza da parte di quelle truppe italiane che non vollero cedere le armi, i reparti più combattivi, quelli che si trovavano ancora fuori dai confini nazionali. Mi limito a menzionare quello dell’isola di Cefalonia del 22 settembre 1943, di cui tanto si è parlato negli anni della Presidenza Ciampi che ha avuto il merito di rivalutare l’evento come il primo episodio della Resistenza italiana: a Cefalonia vennero massacrati quasi 8000 uomini della divisone Acqui che rifiutarono di consegnarsi ai tedeschi.
 
La divisione della nazione: la "linea Gustav"


«L’elemento storico decisivo dell’8 settembre – ha scritto Galli della Loggia – [...] non sta nel fatto, ma nel come» (Ernesto Galli della Loggia, La morte della Patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 18). È il come ad essere memorabile. Se infatti si escludono casi eccezionali, la cui eccezionalità conferma appunto che la regola fu un’altra, il dileguarsi di tutto e di tutti nel frangente dell’8 settembre testimonia «di un che di aleatorio, [...] di occasionale che starebbe alle fondamenta dell’edificio statale italiano» (Ivi, p. 15). La stessa cosa non è successa negli altri paesi che hanno subito sconfitte. Non è successa in Germania, ad esempio, la cui sconfitta è stata senz’altro più netta e più dolorosa di quella italiana, senza attenuanti e senza vie di mezzo, come quella del rango, già di per sé umiliante, di “cobelligeranti” cui ci relegarono gli anglo-americani dopo l’8 settembre. In Germania, nel momento del crollo militare, esercito e amministrazione mostrarono una grande capacità di padroneggiare gli eventi, di evitare che la sconfitta si trasformasse in un dileguarsi generale: e di ciò non si può dare merito al solo nazismo, ma soprattutto alla tenuta della compagine nazionale. Al contrario, in Italia ciò che accadde dopo quella fatidica data mostra «la crisi della nazione, la sua inettitudine a reggere le prove, la gracilità insospettata del vincolo di appartenenza comunitario, la forza irreprimibile [che hanno invece] gli egoismi e le viltà individuali» (Ivi, p. 12). Per questo secondo alcuni storici (Renzo De Felice, soprattutto, ma dopo di lui altri come Galli della Loggia ed Elena Aga-Rossi), con l’8 settembre, o meglio con tutti gli eventi del 1943, sarebbe venuto meno qualcosa di più del regime fascista: si sarebbe persa, con il crollo dell’unità del paese e della compagine statale, la fragile identità nazionale. (1 – continua)