Il mito della new economy
Prima
parte: la new economy e la bolla speculativa del 2000
La
crisi economica attuale, iniziata nel 2008 negli Stati Uniti con il crac del
mercato dei mutui sub-prime e poi aggravatasi
nel 2011 con la crisi dei debiti sovrani europei, ha forse un’origine nel
fenomeno della globalizzazione. Quest’ultimo, a sua volta, ha origini lontane,
nella internazionalizzazione degli affari iniziata dopo la seconda guerra
mondiale. Oggi tutti, o quasi tutti, si sono scoperti critici della
globalizzazione e in Europa c’è persino chi invoca il ritorno al protezionismo
doganale per contrastarne gli effetti. Eppure, non più tardi di 10-12 anni fa,
vi era un mito opposto ad occupare lo spazio della discussione pubblica: quello
della new economy. Qualcuno se la
ricorda?
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Nicholas Negroponte, informatico statunitense, fondatore di MediaLab, cofondatore di Wired, autore nel 1995 del best seller Being Digital |
A
causa della globalizzazione, e delle opportunità di sviluppo e di guadagno che
questa sembrava promettere, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo
millennio l’opinione pubblica occidentale fu attraversata da un brivido travolgente:
tecnologia telematica, finanza, inventiva, genialità, velocità sembrarono
essere i “nuovi valori” della società del futuro. Internet sembrava promettere
felicità, benessere e pace nel mondo; la soluzione di ogni problema sembrava
provenire dal connubio tra informatica e finanza creativa; il termine
globalizzazione suscitava più simpatie che astio tra le nuove generazioni e i giovani,
affascinati da queste novità, erano spinti a non considerare più l’arricchimento
personale come immorale ma, al contrario, come la giusta ricompensa dell’applicazione
del proprio ingegno nei settori più avanzati della moderna economia globale, ovvero
l’informatica e la finanza. I guru di questa new wave, come Nicholas Negroponte, sostenevano che presto il
vecchio mondo dell’economia “materiale”, sarebbe stato sostituito da un nuovo
universo economico “immateriale”, orbitante all’interno delle connessioni
telematiche, un mondo in cui uomo e computer avrebbero interagito in modo
sempre più efficace e sempre più rapido.
Non solo la new economy sarebbe stata migliore rispetto alla vecchia economia, non
solo sarebbe stata più moderna grazie alla nuova tecnologica, ma avrebbe
costruito un mondo meno inquinato e moralmente più pulito, un mondo più
giovane, più civile e più pacifico. Questi i miti che circolavano in quei
decenni: dalla tecnologia telematica e dalla creatività finanziaria ci si attendeva
la risoluzione dei problemi del mondo. La vecchia cultura umanistica non
sarebbe servita più a nulla; ogni problema sarebbe stato risolto grazie a due
soli strumenti: internet e mercato borsistico.
Così,
a partire dagli anni Novanta le azioni emesse dalle aziende che producevano alta
tecnologia conobbero un aumento notevole di valore, talvolta al di là di ogni
aspettativa ottimistica, perché poterono contare sulla fiducia che il pubblico
accordava alle imprese che lavoravano nel campo della telefonia mobile e di
internet. Un’inarrestabile ondata di entusiasmo e di ottimismo produsse un’impennata
rapidissima, senza precedenti, del valore delle azioni emesse da ogni azienda
che potesse vantare qualche relazione con la tecnologia delle telecomunicazioni.
Al punto tale che in alcuni mercati borsistici si è dovuto separare l’indice
delle azioni collegate a quelle aziende da quello delle azioni collegate ad
altri tipi di imprese: già negli anni Ottanta, ad esempio, a Wall Street vi era
il listino dei titoli trattati telematicamente, il NASDAQ, che si è separato
dal listino principale della Borsa di New York ed anche dal Dow Jones (listino
dei 30 principali titoli trattati). Simili listini sono nati negli anni Novanta
un po’ in tutte le Borse. Così in Italia è nato il Numtel (Nuovo Mercato delle
telecomunicazioni), listino delle aziende della telecomunicazione, che si è
staccato dal MiB (listino ufficiale di Milano Borsa), dal MiBtel (come il MiB,
ma fondato sulla contrattazione telematica) e dal MiB30 (il Dow Jones
italiano). Per questo il pubblico, i mass media e gli operatori economici hanno
cominciato a parlare di new economy,
intendendo con questo termine tutto il mercato finanziario e l’apparato
produttivo collegato alle aziende che operavano in quei settori tecnologici.
Difficile negare che abbia contribuito alla nascita di tale ottimismo il mito
di internet a cui prima mi riferivo: come dicevo, a questo mito molti, specie
tra le nuove generazioni, hanno attribuito compiti e finalità miracolose, quali
la possibilità di rendere l’umanità più libera, più ricca, più felice.
In
effetti molti di coloro che nel mondo diedero fiducia alle azioni delle aziende
start up che investivano nel fenomeno
di internet (le cosiddette dot-com) sono
riusciti a fare dei buoni affari, alcuni si sono arricchiti, in qualche caso
anche in modo notevole (negli USA divennero noti i casi di alcuni giovanissimi
utenti di internet che, operando in borsa da casa, misero insieme colossali
fortune). Ma la chimera della fortuna proveniente dalla new economy durò poco: nel breve volgere di alcuni mesi (dal marzo
del 2000) molte delle aziende a cui era stata accordata troppa fiducia
cominciarono a mostrare segni di cedimento; alcune non riuscirono a far fronte
alle spese e ai debiti contratti; non poche dovettero chiudere. Accadde con la new economy la stessa cosa che era
accaduta nel 1637 in Olanda a causa dell’euforia provocata dal commercio dei
tulipani; la stessa cosa accaduta nel 1719 in Europa con la speculazione sui
titoli della Mississippi Company; la stessa accaduta nel 1929 a New York con il
Dow Jones di Wall Street; la stessa, infine, che sarebbe accaduta nel 2008 con
l’entusiasmo per i mutui sub prime. Insomma
la new economy mostrò di avere tutti
i limiti della old economy, il cui
comportamento è noto agli economisti da oltre due secoli: le aziende
capitalistiche nate e cresciute troppo in fretta, grazie all’eccessiva e
infondata fiducia che il pubblico e gli investitori gli accordano, rischiano di
gettare sul lastrico milioni di investitori e di bruciare immense ricchezze non
appena il mercato reale a cui si rivolgono i loro prodotti mostra qualche
segnale, anche timido, di incertezza. È sempre stata questa, del resto, la
conseguenza delle speculazioni finanziarie.
Di
nuovo, in questa crisi, c’era il fatto che la crescita esagerata dei titoli
delle aziende che operavano su internet o per internet fu dapprima facilitata e
poi messa in crisi proprio dalla velocità della rete telematica globale. Le
connessioni telematiche, infatti, avevano avuto conseguenze rivoluzionarie nei
mercati borsistici poiché, collegando in tempo reale tutte le Borse del mondo, facevano
sì che i mercati finanziari non chiudessero mai e operassero per 24 ore al
giorno, tenendo in tal modo sotto costante controllo l’andamento economico
delle aziende e delle nazioni. Non solo: la telematica aveva reso possibile a
chiunque l’intervento nel mercato finanziario, anche senza mediatori. Sicché
ogni piccolo risparmiatore, dotato di un computer e di una connessione ad
internet, poteva operare nelle Borse di tutto il mondo, comprare e vendere
azioni e obbligazioni, e contribuire così a modificare sensibilmente
l’andamento dei titoli.
Tuttavia,
proprio questi aspetti rivoluzionari rendevano i mercati finanziari molto
fragili, sia perché soggetti alle influenze di milioni di operatori sparsi in
tutto il mondo (tra i quali vi erano, ovviamente, soggetti capaci di spostare
milioni di dollari in poche ore: banche, grandi aziende, Stati), sia perché la
connessione di tutti i mercati finanziari provocava la diffusione in tempi
assai rapidi delle speculazioni finanziarie e delle crisi: se a Singapore si
verificava un’impennata di fiducia nei confronti di alcuni titoli azionari, e
quindi un aumento del loro valore, essa si ripercuoteva in tempi rapidi a
Tokyo, in Europa e a New York; ma allo stesso tempo un cedimento dei titoli
azionari a Singapore si poteva ripercuotere nell’arco di poche ore in tutte le
Borse del mondo, con effetti moltiplicatori che ne amplificavano le
conseguenze. I problemi sorti e osservati allora sono presenti, come sappiamo,
anche nell’attuale mercato borsistico: un’eredità degli anni Novanta che oggi
appare ancor più pericolosa. (continua)
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