domenica 29 luglio 2012

Giovanilismo e cultura della contestazione nel '68


3a  PARTE: Il giovanilismo del Sessantotto. La cultura della contestazione in Italia

Le principali fonti di ispirazione culturale del Sessantotto italiano (ma il discorso non sarebbe molto diverso per quello francese o per quello statunitense) furono il marxismo e, appunto in Italia, l’antifascismo, sebbene entrambi siano stati interpretati in modo molto libero. Influssi più importanti vennero dal terzomondismo, dal mito della Cina maoista, dalla Scuola filosofica di Francoforte.



Franz Fanon (1925-1961), psichiatra e filosofo
francese (nativo della Martinica)
Il terzomondismo attecchì poiché tra le popolazioni del Terzo Mondo i giovani del ’68 vi vollero vedere il simbolo della ribellione ai valori della civiltà occidentale che essi stavano criticando. Quei popoli erano per i contestatori occidentali il proletariato del Terzo Mondo di cui aveva parlato Frantz Fanon ne I dannati della Terra (1961: qui a fianco la copertina di una recente edizione francese), il proletariato che “tirava fuori la roncola” quando si parlava di cultura occidentale; l’africano, l’asiatico, il nero divennero ai loro occhi i simboli dell’oppresso che si ribella rivendicando il proprio diritto ad esserci e a far valere le proprie esigenze. Insomma vi videro se stessi e vi si identificarono.
Tazebao cinese di propaganda della
rivoluzione culturale

Un intellettuale cinese percosso dalle
Guardie rosse durante la rivoluzione
culturale cinese (1966-'68)
Allo stesso modo videro la Cina di Mao. Mentre il modello sovietico pareva troppo integrato nella logica della spartizione imperialistica, la Cina sembrava fuori dagli schemi, anch’essa simbolo della rivolta dell’oppresso contro il sistema. Il comunismo cinese, poi, aveva due caratteri che parevano giustificare questa mitizzazione: il ruolo che vi avevano avuto i contadini, simbolo ancor più evidente della condizione dell’oppresso, e il ruolo che vi ebbe, proprio tra 1967 e 1968, la “rivoluzione culturale” attuata da Mao con la quale, a prezzo di gravissime violenze e della quasi totale paralisi dello Stato e della produzione, il leader cinese tolse dalle mani dei burocrati del partito comunista il controllo della Cina, mettendolo dapprima in quelle delle fanatiche “guardie rosse” costituite proprio dagli studenti e dal proletariato urbano, e poi dei militari di Lin-Piao. La rivoluzione culturale cinese è un esempio tipico di come gli eventi del resto del mondo venissero deformati dallo schermo dell’ideologia costruita dai contestatori del ’68: mentre in Cina le guardie rosse facevano strage di intellettuali, per gli intellettuali italiani che condividevano la contestazione giovanile la rivoluzione culturale di Mao appariva come il luogo in cui l’intellettuale cessava di essere subalterno al sistema e diveniva protagonista della trasformazione del mondo. Dai “Quaderni piacentini” ai “Quaderni rossi” (riviste nate negli anni Sessanta nell’ambito della cultura marxista) si salutò la rivoluzione culturale non solo come la rivolta dei giovani contro gli apparati, e dell’oppresso contro il potere, ma anche dell’intellettuale contro il sistema. Si trattò di un mito che non aveva alcuna corrispondenza con gli eventi reali capitati in Cina. Tuttavia, anche con i protagonisti di quegli eventi i giovani italiani si identificarono, attribuendo loro i propri desideri e le proprie aspettative: il desiderio di diventare protagonisti, di essere liberi, di agire come volevano.
Herbert Marcuse (1898-1979) filosofo e sociologo tedesco autore, tra l’altro, di Eros e civiltà (1955) e de L’uomo a una dimensione (1964) opere che ebbero grande risonanza nel movimento di contestazione del 1968
Connesso con il mito terzomondista e con quello cinese, vi era il tema, derivato dalla Scuola di Francoforte e in particolare da Herbert Marcuse, della polemica contro il potere: non questo o quel potere, ma il potere inteso come struttura e sistema che produce, invariabilmente, esclusione e repressione. Per i contestatori del ’68, occorreva combattere il potere ovunque si annidasse: in famiglia nella persona del padre, in fabbrica nella persona del manager o dell’imprenditore, in ospedale nella persona del medico, a scuola o all’università nella persona del professore. Su tale questione si ebbe l’allontanamento dal pensiero di Marx che invece collega il potere al sistema di produzione, non alla posizione sociale o culturale ricoperta dall’’individuo nella società. L’immagine marcusiana del potere risolveva il problema dell’esclusione dal godimento del benessere: i contestatori dicevano che se un sistema sviluppato, come quello italiano, non riusciva a garantire a tutti il benessere, ciò era per colpa del potere; ma se questo fosse stato abbattuto la società sarebbe cambiata. Inoltre tale concezione rendeva più facile la lotta: non era più necessario il partito unico teorizzato da Lenin per fare la rivoluzione, perché bastava moltiplicare le lotte in ogni luogo della società: dalla famiglia alla fabbrica, dalla scuola all’ufficio. La rivoluzione si poteva fare ovunque senza dipendere da un unico centro politico, ma ovunque serviva organizzazione: il ’68 non disprezzò la forma organizzativa del partito e per questo generò molte sigle e moltissime organizzazioni politiche (da Lotta continua a Potere operaio): insomma, moltiplicò le organizzazioni e l’impegno politico in tutti i luoghi in cui vi era il potere.
Don Lorenzo Milani (1923-1967) con attorno alcuni dei
bambini della scuola di Barbiana: dall'esperienza educativa
di Barbiana nacque Lettera a una professoressa (1967) che
influenzò molto il movimento studentesco di contestazione

Sul tema della lotta al potere che esclude i deboli, il movimento del ‘68 si trovò in sintonia con una parte della cultura cattolica: con quella che si identificava con don Lorenzo Milani e con il suo libro Lettera a una professoressa.
In questo libro intellettuali del movimento sessantottino, come Elvio Fachinelli e Marco Boato, vi vollero vedere la condanna di tutta la cultura borghese e della scuola italiana in particolare, ritenuta classista. Il rifiuto della cultura borghese purtroppo coincideva con il rifiuto nei confronti della cultura laica e moderna in nome del diritto dei poveri e degli ignoranti ad esprimere la propria diversità culturale, in nome del diritto dei “pierini” – come scrisse don Milani - ad opporsi ai “primi della classe”. In queste posizioni del ’68 si manifestarono alcuni dei suoi aspetti più inquietanti: l’avversione alla cultura borghese nascondeva l’avversione alla modernità, alla democrazia liberale, al pensiero laico, al pluralismo delle opinioni.
 
È da aspetti come questi che nacquero i frutti più avvelenati del movimento, ad esempio il fanatismo, l’intolleranza, la violenza e le bombe molotov. Ma ancora più importante fu un altro fatto: i contestatori non si avvidero che dietro l’argomento della lotta contro il potere e contro il sistema si celavano il desiderio di protagonismo e di affermazione individuale: desideri legittimi che sono il prodotto del processo di emancipazione dei comportamenti dalla sfera della tradizione e dalle gerarchie, un processo che è parte della storia della secolarizzazione della società moderna. Ma l’individualismo rivendicato nel ’68, poiché attribuì ogni colpa al potere e al sistema, condusse alla netta separazione tra diritti e responsabilità individuali. Poiché tutte le colpe della difficoltà ad affermarsi furono attribuite alla società, il singolo apparve sempre sotto la luce dell’oppresso, e quindi mai responsabile dei suoi atti. Fu la deresponsabilizzazione dell’individuo a generare lo slogan del ’68 “vietato vietare”, slogan che divenne un’etica diffusa: ogni divieto andava combattuto perché espressione di potere; ogni  atto individuale di protesta, invece, andava sempre giustificato; e se questo produceva effetti perversi, la colpa era comunque della società, mai del singolo.
Il sociologo Omar Calabrese (1949-2012)
Appare condivisibile, quindi, il giudizio che negli anni Ottanta ha formulato sulla gioventù del Sessantotto Omar Calabrese, il noto sociologo italiano che partecipò a quegli eventi: l’ideologia radicale e rivoluzionaria fu un esito del bisogno di soggettività e di protagonismo che il giovane di quel decennio manifestava. Bisogno che, a sua volta, nasceva dal fatto che il mercato si era accorto dei giovani e voleva renderli i primi promotori dei consumi di massa; i giovani, dal canto loro, volevano accedere a questi consumi e quindi rivendicarono il loro ruolo di protagonisti nella società. Per questo, conclude Calabrese, le proposte politiche del ’68 sono quasi tutte fallite, poiché si ispiravano ad ideologie collettiviste, quindi poco appropriate ad esaltare la libertà assoluta del singolo: quelle proposte altro non erano che paraventi, i quali nascondevano il bisogno di protagonismo dei giovani. Al contrario, la radicale mutazione dei comportamenti sociali e di consumo che il ’68 ha prodotto, questa sì che è rimasta, al punto tale che la società odierna si è profondamente “sessantottizzata” (Omar Calabrese, Appunti per una storia dei giovani in Italia, in AA.VV., La vita privata. Vol. V: Il Novecento, a cura di Philippe Aries e Georges Duby, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 79-106, in particolare pp. 95-99). I nuovi valori del ’68 si sono infatti diffusi e imposti a livello di massa, coinvolgendo tutte le classi di età: l’anticonformismo, la ricerca dell’alternativa in ogni campo (dal lavoro alla politica), l’esibizione delle proprie scelte sessuali, l’ostentazione della creatività e della sperimentazione che divengono requisiti fondamentali per essere moderni, la parità non solo tra i sessi ma tra tutti i comportamenti sessuali e tra tutte le forme di convivenza, e infine la trasgressione come scelta culturale necessaria per esaltare la libertà del singolo. Questa nuova etica diventò nel breve volgere di un paio di decenni patrimonio di un’intera società, o quasi. E poiché essa possedeva l’attributo di giovane, dopo il ’68, un’intera società, o quasi, non avrebbe trovato difficoltà a definirsi giovane e a diventare, in tal modo, la vera erede del Sessantotto. (3 – continua)

I Rolling Stones e il loro logo: simboli di trasgressione
e anticonformismo per i giovani degli
anni Sessanta

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