Un esame sempre più inefficace
È
passato un anno e sono di nuovo alle prese con gli stessi problemi:
l’inefficacia e l’inutilità dell’esame di Stato. L’anno scorso ho segnalato
errori e inefficienze dell’esame finale della scuola media superiore, e a quei
post rinvio chi fosse interessato (vedi post del 20/6/2012, del 27/6, del 29/6, dell'1/7 e del 5/7). Quest’anno, oltre a ribadire quegli
argomenti, intendo mettere in luce un aspetto particolare delle prove cui sono
sottoposti gli studenti: l’assoluta inservibilità del colloquio orale.
Com’è
noto, si tratta della prova conclusiva dell’intero percorso dell’esame di
Stato. Forse è anche quella più temuta dagli studenti, per varie ragioni.
Innanzitutto perché il colloquio richiede (dovrei dire: richiederebbe) una
vasta preparazione su nozioni e argomenti relativi a una decina di materie. In
secondo luogo perché un colloquio, a differenza di un testo scritto, è
rivelatore (ma anche in questo caso dovrei usare il condizionale) di aspetti
della personalità e dell’intelligenza di chi parla che non sempre emergono
dalla scrittura, tanto meno dalle prove scritte dell’esame di Stato. Infine,
perché parlare di fronte a un tribunale di commissari, schierati dall’altra
parte dei tavoli, mette sempre più in difficoltà i nostri giovani, abituati come
sono a comunicare in modo indiretto, nascondendosi dietro i linguaggi
stereotipati degli strumenti tecnologici e dei social media. Eppure, come
spiegherò, i timori degli studenti sono spesso infondati, o perlomeno
sproporzionati rispetto alla reale difficoltà della prova orale.
Perché
dico questo? Per quattro buone ragioni. La prima: il tempo assegnato alla
verifica della preparazione in ciascuna disciplina è irrisorio. La seconda:
l’argomento a piacere scelto dal candidato, con cui il colloquio deve iniziare,
è spesso un disinvolto volo pindarico sul nulla; di frequente, inoltre, è quasi
interamente scaricato da internet. La terza: l’elefantiaca burocrazia che
occorre seguire, per giustificare la conduzione del colloquio e motivare le
valutazioni espresse, è una camicia di Nesso che rende impossibile una seria
discussione sulla reale preparazione dei candidati. La quarta: le valutazioni
espresse sono mediamente più elevate di quelle che ogni insegnante darebbe ai
suoi studenti durante l’anno scolastico.
Il problema del tempo. La legge e la
prassi hanno definito lo standard della durata del colloquio. Questo deve
infatti svolgersi, come afferma l’Ordinanza ministeriale (O.M. n. 13 del 24
aprile 2013, art. 16), “in un’unica soluzione temporale” che deve comprendere
tre fasi: l’inizio, “con un argomento o con la presentazione di
esperienze di ricerca e di progetto, anche in forma multimediale, scelti dal
candidato” (la prassi ha assegnato a questa fase circa 10 minuti); la
prosecuzione, che “deve vertere su argomenti di interesse
multidisciplinare”, coinvolgere “le diverse discipline” e riferirsi in modo
“costante e rigoroso ai programmi e al lavoro didattico realizzato nella classe
durante l’ultimo anno di corso” (ivi, art. 16, commi 2 e 3; la prassi ha assegnato
a questa fase circa 35-40 minuti: è il colloquio vero e proprio, ovvero l’interrogazione
sulle singole discipline); la conclusione che, “d’obbligo”, deve
consistere nella “discussione degli elaborati delle prove scritte” (comma 2; la
prassi ha assegnato a quest’ultima fase circa 10 minuti). Altri 5-10 minuti
scarsi sono utilizzati dalla commissione per decidere la valutazione del
colloquio, poiché la norma stabilisce che essa va definita “nello stesso giorno
nel quale il colloquio viene espletato” (comma 9).
In
tal modo l’interrogazione sulle singole discipline si riduce a circa 4 minuti a
materia. Quale profondità può avere un simile colloquio? Che altro si potrà
sondare, in pochi minuti, se non qualche magra nozioncina, strappata a fatica
da studenti ai quali non si lascia nemmeno il tempo di controllare l’ansia?
Provate ad ascoltare un esame orale: tra le interruzioni del commissario, che
interviene per correggere gli strafalcioni più scandalosi, i silenzi dello
studente che cerca la risposta nella sua memoria, le pressioni dei presidenti
che, ansiosamente, tentano di far rispettare i tempi, sì e no il candidato riesce
a proferire, in ciascuna disciplina, 200-300 parole, congiunzioni e pronomi
compresi.
A
questo esito siamo arrivati soprattutto a causa della prassi: la legge è vaga,
ma la prassi è molto concreta. Non ho mai conosciuto commissioni d’esame disposte
a interrogare per 2 ore ciascun candidato, al fine di rendere più convincente
ed efficace la verifica. Lo standard dell’ora è più o meno diffuso in tutta la
penisola, anche per ragioni pratiche: esso consente di esaminare 5 candidati al
giorno (numero massimo previsto dalla norma: O.M. cit., art. 12, comma 10), di terminare
entro il 18 luglio (come previsto dall’O.M.: art. 22, comma 6), di preservare
le energie degli esaminatori che, nelle tre settimane di lavori d’esame,
sgobbano davvero, affrontando talvolta giornate di 10-12 ore filate, come nei
giorni dedicati alla correzioni delle prove scritte.
L’argomento a piacere. Volete sapere come
si nobilita il nulla, gabellandolo per una seria e approfondita indagine
scientifica? Ascoltate le cosiddette “tesine” dei candidati all’esame di Stato.
Eccezion fatta per pochi apprezzabili casi, gli argomenti scelti dal candidato
per l’avvio del colloquio sono generalmente velleitari e in qualche caso
manifestano una certa supponenza, o, meglio, la pretesa di essere accolti dal
mondo come una rivelazione. I pochi lavori meritevoli di attenzione sono, non a
caso, i più semplici, o almeno quelli che nascono da interessi reali: una volta
un candidato catturò l’attenzione della commissione spiegando, con chiarezza
esemplare, le leggi fisiche che consentono di produrre bolle di sapone con una
cannuccia e del fil di ferro, strumenti utilizzati dallo studente durante
l’esposizione. In quasi tutti gli altri casi i lavori prodotti pescano nel
bacino infinito degli stereotipi della cultura massificata, con il loro corredo
di luoghi comuni: la mafia e le responsabilità della politica; la crisi dell’io
e l’alienazione nella società industriale; lo sfruttamento dei paesi del Terzo
Mondo e i crimini dell’occidente; le piaghe dell’alcolismo e del tabagismo e
gli interessi delle multinazionali; i cambiamenti climatici e le colpe del
mondo più ricco; il conformismo culturale e le responsabilità della
televisione; internet e le sue mistiche potenzialità liberatorie… Insomma, un
repertorio di buonismo, di retorica terzomondista (piuttosto datata, per la
verità, ma sempre diffusa tra le giovani generazioni), di idee politically correct. Un’indagine seria
su come questi lavori vengono preparati non è stata mai effettuata; ma sono
convinto che, qualora venisse realizzata, rivelerebbe che almeno due terzi di
essi sono scaricati da internet, divenuta ormai l’unica fonte di informazione
per gli studenti. Raramente l’elaborazione delle cosiddette “tesine” prevede, a
monte, la lettura integrale di un libro; la lettura di due libri, poi, è
davvero un evento eccezionale.
L’insostenibile
peso della burocrazia. L’intera
vita della commissione d’esame è condizionata dall’ossessione dei verbali.
L’Ordinanza ministeriale afferma che “la verbalizzazione deve descrivere
sinteticamente ma fedelmente le attività della commissione e chiarire le
ragioni per le quali si perviene a determinate conclusioni, in modo che il
lavoro di ciascuna commissione possa risultare trasparente in tutte le sue fasi
e nella sua interezza e che le deliberazioni adottate siano pienamente e
congruamente motivate” (art. 20, comma 2). Il timore di incappare in una
contestazione o in un ricorso ha reso questa attività eccessivamente complessa,
anche se il contenuto dei verbali è ormai in formato elettronico e, dall’anno scorso,
è disponibile persino on line. Ma l’informatizzazione non ha tolto alle
procedure burocratiche il loro peso: quasi trenta verbali da compilare, per un
totale di circa 40-50 pagine, a seconda dei casi e degli imprevisti; ad essi
sono allegati tabelle, griglie e schede in quantità industriale. L’attenzione
dei segretari e dei presidenti persino per le virgole contenute nei verbali, al
fine di non lasciare nulla di incompleto e di immotivato, sembra quasi
paranoica. Dio non voglia, poi, che vi siano discordie tra i commissari nel
momento dell’attribuzione dei voti, perché in questo caso le valutazioni
alternative dovrebbero avere il loro corredo di “motivate argomentazioni”. In
tal modo gran parte del tempo e delle energie vengono risucchiate dall’attività
della verbalizzazione, anziché da una distesa discussione sui risultati delle
prove.
Esempio di "griglia di valutazione" |
Le
valutazioni. Il sacrosanto
principio della trasparenza ha finito per partorire il mostro della burocrazia
bizantina, osservabile soprattutto nel materiale utilizzato per la valutazione
delle prove. Questo materiale è il prodotto di un lavorio intenso di
“sottobosco”, condotto negli anni dagli insegnanti di tutte le scuole,
attraverso il quale sono state create griglie di valutazione, indicatori,
punteggi grezzi, pesi e contrappesi, per rendere rapida, oggettiva e, quindi,
incontestabile la valutazione delle singole prove. Va da sé che uno degli aspetti
fondamentali di tali strutture “docimologiche” consiste nell’essere “favorevole
al candidato”; sicché, la sufficienza non corrisponde al 60% del punteggio
disponibile, ma in genere al 50%, al fine di ottemperare a quanto previsto
dalla norma: “La commissione d'esame dispone di 30 punti per la valutazione del
colloquio. Al colloquio giudicato sufficiente non può essere attribuito un
punteggio inferiore a 20” (O.M. cit., art. 16, comma 8). Se vigesse una
proporzionalità diretta rispetto alla scala dei voti in decimi, la sufficienza
dovrebbe essere 18/30… Stessa cosa, naturalmente, accade per le prove scritte
valutate in quindicesimi: a una prova giudicata sufficiente “non può essere attribuito
un punteggio inferiore a 10” (art. 15, comma 5). Anche in questo caso, se si
fosse considerata una proporzione diretta rispetto ai voti in decimi, la
sufficienza sarebbe stata 9/15… A questo elemento di favore nei confronti del
candidato, si aggiunge spesso, nella valutazione del colloquio, un
atteggiamento di indulgenza che sembra confermare quanto denunciai lo scorso
anno: l’esame tende a ratificare i risultati degli scrutini di ammissione,
perciò di fronte ad un orale poco sicuro e poco brillante condotto da uno
studente che ha percorso l’intero quinquennio con serietà, impegno e buoni
risultati, è ovvio che i commissari interni spingano per una valutazione “comprensiva”,
mentre gli esterni (spesso ma non sempre) evitano di mettersi di traverso.
Lo
scorso anno sostenni una “micro-campagna” per l’abolizione dell’esame di Stato
(di questo esame, effettuato con le attuali modalità e con il consueto
atteggiamento di indulgenza); quest’anno non solo ribadisco l’opinione, ma propongo
che si compia un piccolo passo verso quella direzione: l’abolizione, almeno, del
colloquio orale. Se è vero, come qualcuno sostiene, che tutto l’esame di Stato avrebbe
un valore simbolico-iniziatico, e che per tanto dovrebbe essere mantenuto anche
se inefficace, allora non dovremmo attribuire punteggi, dovremmo abolire la
burocrazia, dovremmo svolgere l’intero percorso in un paio di giorni. Ma se l’esame
deve restare con l’attuale valore di legge e con le attuali caratteristiche, allora,
almeno, dovremmo semplificarne la struttura. E la prima semplificazione possibile
consiste appunto nell’eliminazione dell’inutile colloquio orale. A meno che non
lo si voglia trasformare in una seria, rigorosa, selettiva prova finale: ma è
questo che vogliono gli italiani?
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