mercoledì 3 luglio 2013

Democrazia e mondo islamico: piazza Tahrir contro Morsi

Egitto: cosa vuol dire democrazia per Morsi?

Piazza Tahrir nel 2011

Piazza Tahrir, di nuovo. In queste ore è scaduto in Egitto l’ultimatum che l’esercito ha imposto al presidente Morsi. Se domani scoppierà una guerra civile sarà perché il presidente, che è anche esponente importante dei Fratelli Musulmani, non avrà voluto cedere. “Sono pronto a difendere la democrazia anche con la vita”, ha dichiarato ieri sera Morsi alla televisione: un messaggio drammatico che fa presagire eventi sanguinosi.

Piazza Tahrir oggi
Che la primavera araba, salutata inizialmente come la rivoluzione che avrebbe saputo coniugare Islam e libertà, moschea e twitter, non si stava avviando verso una strada davvero democratica abbiamo già avuto modo di osservarlo in altre realtà: dalla Libia alla Tunisia, dalla Siria al Marocco, le sollevazioni popolari del 2011 non hanno ancora soddisfatto le aspettative di libertà e democrazia in cui l’Occidente aveva sperato. In particolare in Egitto, la deposizione di Mubarak, avvenuta nel febbraio di due anni fa, sembrò per un istante illudere l’Europa e gli Stati Uniti: libere elezioni, libera competizione elettorale, libertà di espressione anche per le opposizioni democratiche e laiche. Poi, le elezioni sancirono la vittoria di Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani: un islamista al potere fu la doccia fredda che non ci si attendeva.
 
Il Presidente egiziano Mohamed Morsi durante il suo
recente, drammatico appello in tv
Ora il pallino del gioco è tornato nelle mani dell’esercito, da decenni baluardo della laicità in molti paesi islamici (ad esempio in Turchia, ma anche in Siria). Certo, l’esercito non promette né libertà né democrazia, ma, forse, una dittatura militare; magari temporanea, in attesa che le acque si plachino, che i primi provvedimenti governativi diano speranza alle plebi impoverite dalla crisi e dall’inerzia di Morsi: ma sarebbe pur sempre una dittatura. Non dimentichiamo che è Morsi il presidente democraticamente eletto, proprio colui che oggi, in piazza Tahrir, è contestato e rifiutato dalle folle.

La situazione egiziana ripropone un dilemma che puntualmente si ripresenta ad ogni sommovimento che attraverso il mondo islamico: il modello occidentale di democrazia è davvero attuabile in quel mondo? Sono conciliabili l’idea e la prassi della libertà e dell’esercizio del voto in regioni dove non è mai esistita una solida tradizione democratica? È possibile impiantare nell’Islam una radice di democrazia liberale occidentale? Sono dubbi legittimi, se si pensa che dall’Egitto alla Siria, dall’Iran al Pakistan le minoranze liberaldemocratiche, se vi sono, sono state sistematicamente intimorite o ridotte al silenzio; la partecipazione popolare ai cambiamenti è stata utilizzata per sostenere dittature aspre e sanguinarie; la religione è servita come giustificazione per fondare dispotici regimi teocratici. Dittature laiche e governi teocratici, infine, hanno spesso avuto in comune il tratto dell’antioccidentalismo. Se si eccettua la Turchia (dove, per altro, il governo di Erdogan ha compiuto una decisa sterzata in senso antiliberale), tutti gli altri paesi popolati da musulmani presentano, in maggiore o minore misura, questi caratteri.
 
I recenti scontri in piazza Tahrir hanno già
provocato molte vittime
In Occidente, in Europa soprattutto, siamo sempre pronti ad etichettare i cambiamenti che avvengono in queste regioni come democratici, solo perché sono riusciti a coinvolgere milioni di manifestanti. La primavera araba, sviluppatasi all’insegna di twitter, ha suscitato l’illusione che il mondo islamico si stesse democratizzando e che il potere taumaturgico della rete l’avrebbe definitivamente liberato da ogni forma di oppressione, religiosa, economica, militare. Nella realtà le cose sono andate in modo diversissimo: le rivoluzioni hanno scatenato odi e vendette (vedi per la Siria la vicenda che ho ricordato nel post del 14 giugno scorso); il voto a suffragio universale ha consegnato i governi a partiti poco o per niente liberali; i diritti civili sono continuamente calpestati non solo dai governi emersi dai tumulti, ma dalle stesse folle ubriacate dagli slogan e dalla violenza. Human Rights Watch ha denunciato un centinaio di stupri avvenuti in Egitto tra domenica e lunedì, violenze perpetrate da uomini comuni che hanno approfittato della confusione generale.

Che cosa vuol dire democrazia per popoli come quello egiziano o quello libico? Siamo sicuri che questo termine significhi, oltreché “potere del popolo”, quel che significa per noi occidentali, ovvero stato di diritto, rispetto dei diritti civili, tutela delle minoranze, accettazione della diversità, in qualsiasi forma essa si manifesti? Siamo sicuri che i valori democratici a cui oggi si appella Morsi non significhino piuttosto eliminazione di ogni opposizione minoritaria, in nome del “volere popolare”? Non sembri esagerata questa interpretazione: proprio oggi il Corriere della sera ci dà notizia che Mohamed al-Zawahiri, fratello del capo attuale di Al-Qaeda (Ayman al-Zawahiri) ha emesso una fatwa contro gli oppositori di Morsi, autorizzando così i suoi seguaci, i jihadisti salafiti, a combattere contro costoro con ogni mezzo. Come dire: gli oppositori e i critici del governo Morsi, poiché osano sfidare il voto popolare, avranno la morte.
 
Manifestante durante la
"primavera araba" del 2011
Non bastano né internet né il voto per trasformare in cultura politica occidentale una civiltà intrisa di fanatismo religioso, ancora ignara del valore dei diritti civili, insensibile al problema della libertà e all’esigenza della sua tutela. Due anni fa twitter ha illuso molti in occidente. Oggi costoro dovranno risvegliarsi dal sonno dogmatico: in Egitto, tra qualche ora, potremmo trovarci di fronte ad una macabra conta dei morti.

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