Egitto: cosa vuol
dire democrazia per Morsi?
Piazza Tahrir nel 2011 |
Piazza Tahrir, di nuovo. In
queste ore è scaduto in Egitto l’ultimatum che l’esercito ha imposto al
presidente Morsi. Se domani scoppierà una guerra civile sarà perché il
presidente, che è anche esponente importante dei Fratelli Musulmani, non avrà
voluto cedere. “Sono pronto a difendere la democrazia anche con la vita”, ha
dichiarato ieri sera Morsi alla televisione: un messaggio drammatico che fa
presagire eventi sanguinosi.
Piazza Tahrir oggi |
Che la primavera araba,
salutata inizialmente come la rivoluzione che avrebbe saputo coniugare Islam e
libertà, moschea e twitter, non si stava avviando verso una strada davvero
democratica abbiamo già avuto modo di osservarlo in altre realtà: dalla Libia
alla Tunisia, dalla Siria al Marocco, le sollevazioni popolari del 2011 non hanno
ancora soddisfatto le aspettative di libertà e democrazia in cui l’Occidente aveva
sperato. In particolare in Egitto, la deposizione di Mubarak, avvenuta nel
febbraio di due anni fa, sembrò per un istante illudere l’Europa e gli Stati
Uniti: libere elezioni, libera competizione elettorale, libertà di espressione
anche per le opposizioni democratiche e laiche. Poi, le elezioni sancirono la
vittoria di Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani: un islamista al potere fu
la doccia fredda che non ci si attendeva.
Ora il pallino del gioco è
tornato nelle mani dell’esercito, da decenni baluardo della laicità in molti
paesi islamici (ad esempio in Turchia, ma anche in Siria). Certo, l’esercito non
promette né libertà né democrazia, ma, forse, una dittatura militare; magari
temporanea, in attesa che le acque si plachino, che i primi provvedimenti governativi
diano speranza alle plebi impoverite dalla crisi e dall’inerzia di Morsi: ma sarebbe
pur sempre una dittatura. Non dimentichiamo che è Morsi il presidente democraticamente
eletto, proprio colui che oggi, in piazza Tahrir, è contestato e rifiutato
dalle folle.
La situazione egiziana
ripropone un dilemma che puntualmente si ripresenta ad ogni sommovimento che
attraverso il mondo islamico: il modello occidentale di democrazia è davvero
attuabile in quel mondo? Sono conciliabili l’idea e la prassi della libertà e
dell’esercizio del voto in regioni dove non è mai esistita una solida
tradizione democratica? È possibile impiantare nell’Islam una radice di
democrazia liberale occidentale? Sono dubbi legittimi, se si pensa che dall’Egitto
alla Siria, dall’Iran al Pakistan le minoranze liberaldemocratiche, se vi sono,
sono state sistematicamente intimorite o ridotte al silenzio; la partecipazione
popolare ai cambiamenti è stata utilizzata per sostenere dittature aspre e
sanguinarie; la religione è servita come giustificazione per fondare dispotici regimi
teocratici. Dittature laiche e governi teocratici, infine, hanno spesso avuto
in comune il tratto dell’antioccidentalismo. Se si eccettua la Turchia (dove,
per altro, il governo di Erdogan ha compiuto una decisa sterzata in senso
antiliberale), tutti gli altri paesi popolati da musulmani presentano, in
maggiore o minore misura, questi caratteri.
In Occidente, in Europa
soprattutto, siamo sempre pronti ad etichettare i cambiamenti che avvengono in
queste regioni come democratici, solo perché sono riusciti a coinvolgere
milioni di manifestanti. La primavera araba, sviluppatasi all’insegna di twitter,
ha suscitato l’illusione che il mondo islamico si stesse democratizzando e che
il potere taumaturgico della rete l’avrebbe definitivamente liberato da ogni
forma di oppressione, religiosa, economica, militare. Nella realtà le cose sono
andate in modo diversissimo: le rivoluzioni hanno scatenato odi e vendette
(vedi per la Siria la vicenda che ho ricordato nel post del 14 giugno scorso); il voto a
suffragio universale ha consegnato i governi a partiti poco o per niente
liberali; i diritti civili sono continuamente calpestati non solo dai governi
emersi dai tumulti, ma dalle stesse folle ubriacate dagli slogan e dalla
violenza. Human Rights Watch ha
denunciato un centinaio di stupri avvenuti in Egitto tra domenica e lunedì,
violenze perpetrate da uomini comuni che hanno approfittato della confusione
generale.
Che cosa vuol dire
democrazia per popoli come quello egiziano o quello libico? Siamo sicuri che
questo termine significhi, oltreché “potere del popolo”, quel che significa per
noi occidentali, ovvero stato di diritto, rispetto dei diritti civili, tutela
delle minoranze, accettazione della diversità, in qualsiasi forma essa si
manifesti? Siamo sicuri che i valori democratici a cui oggi si appella Morsi
non significhino piuttosto eliminazione di ogni opposizione minoritaria, in
nome del “volere popolare”? Non sembri esagerata questa interpretazione:
proprio oggi il Corriere della sera
ci dà notizia che Mohamed al-Zawahiri, fratello del capo attuale di Al-Qaeda
(Ayman al-Zawahiri) ha emesso una fatwa
contro gli oppositori di Morsi, autorizzando così i suoi seguaci, i jihadisti
salafiti, a combattere contro costoro con ogni mezzo. Come dire: gli oppositori
e i critici del governo Morsi, poiché osano sfidare il voto popolare, avranno
la morte.
Non bastano né internet né
il voto per trasformare in cultura politica occidentale una civiltà intrisa di fanatismo
religioso, ancora ignara del valore dei diritti civili, insensibile al problema
della libertà e all’esigenza della sua tutela. Due anni fa twitter ha illuso
molti in occidente. Oggi costoro dovranno risvegliarsi dal sonno dogmatico: in
Egitto, tra qualche ora, potremmo trovarci di fronte ad una macabra conta dei
morti.
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