Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(seconda e ultima parte)
Ecco
il piano di Grandi, che egli stesso giudicò “temerario”. Primo: convincere il re a
deporre Mussolini, a nominare un primo ministro e un governo del tutto nuovi.
Grandi pensava al Maresciallo Caviglia, perché non compromesso con il regime:
“Caviglia, – scrisse Grandi nella già citata lunga annotazione di diario che
verrà pubblicata nelle sue memorie – nemico personale di Badoglio, è il solo
fra i grandi capi militari della prima guerra mondiale che non abbia fornicato
col fascismo e dimostrato servilità al Duce”. Secondo: con il nuovo
governo gli italiani, raccolti attorno al re, avrebbero dovuto rivolgere le
armi contro la Germania: “Se vogliamo riacquistare le nostre libertà – prosegue
Grandi - dobbiamo dimostrare agli anglo-americani che siamo pronti a pagare il
prezzo, senza attendere che la libertà ci venga regalata dalla sconfitta.
Sarebbe questa una libertà pagata a un duro prezzo. E allora? Allora è
necessario, è indispensabile, è inevitabile che siamo noi a prendere
l’iniziativa di guerra contro la Germania nazista, contro il nostro potente e
prepotente alleato. […] Agli anglo-americani non dobbiamo domandare nulla, ma soltanto
farli trovare improvvisamente di fronte allo spettacolo di una Italia che si
difende colle armi in pugno contro quella che sarà l’inevitabile vendetta della
Germania nazista. Come potranno gli Alleati continuare a combattere contro una
Nazione che già per conto proprio ha preso a combattere contro il nemico
comune, con in testa il suo Re attorno al quale si stringeranno tutti gli
Italiani? Non vedo altra via di scampo, se non questa. L’Italia dovrà
attraversare un nuovo e forse più doloroso Calvario. Questo sarà il prezzo del
suo riscatto. […] questo piano – concludeva G. - è condizionato […] da tre
presupposti: il coraggio della Monarchia; l’intelligenza degli Alleati; il
patriottismo degli antifascisti. Si verificheranno questi presupposti e queste
condizioni? Non lo so. Ma lo spero” (cit. in De Felice, op. cit., p. 1203: per il titolo dell’opera vedere il precedente
post).
Mentre
Grandi dimostrava con questi propositi di avere grande lucidità, Mussolini
sembrava impotente; il re intrappolato nell’indecisione dagli scrupoli
giuridici (era preoccupato di muoversi rispettando lo Statuto), dal timore di
suscitare reazioni vendicative da parte della Germania, dal suo scetticismo che
lo conduceva ad essere malfidato nei confronti di tutti, a non nutrire speranze
per alcuna soluzione.
Dopo
i tracolli militari dell’Asse in Africa e in Russia, cominciò un vorticoso giro
di rapporti tra Ciano, Bottai, Grandi e gli angloamericani, grazie alla
mediazione di monsignor Montini e di Maria Josè, la consorte del principe
ereditario Umberto. Tra gennaio e luglio 1943, in questi ambienti si sondarono
diverse strade per far uscire l’Italia dalla guerra; Mussolini invece puntava
sulla chiusura del fronte russo, al fine di potersi concentrare sul
Mediterraneo. Solo dalla primavera del 1943 cominciò a prendere in
considerazione l’uscita dell’Italia dal conflitto, ma, stando a quel che
riferirono le persone a lui più vicine, confessò che gli sarebbe servito tempo
per convincerne Hitler. I documenti riservati degli Affari Esteri, analizzati
da De Felice, mostrano in effetti un Mussolini preoccupato, ma incapace di
decidersi in un senso piuttosto che in un altro, assalito da continui e
improvvisi cambiamenti di umore. Di fronte a questa situazione, che sembrava di
ora in ora sempre più senza via di uscita, si fece strada l’idea che la
soluzione fosse nell’esautorare il duce. Però tutti i personaggi del fascismo
coinvolti nel percorso che portò alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio
erano sfiduciati sulla possibilità di ottenere questo risultato; inoltre
nessuno, eccetto Grandi, aveva chiarezza di idee su cosa occorresse fare poi.
Se la seduta del Gran Consiglio ebbe l’esito che ebbe il merito fu di Grandi,
“di un uomo cioè – ha scritto De Felice – del quale tutto si può dire salvo che
mancasse di idee chiare e di decisione e di quel tanto di spregiudicatezza
necessaria a mettere d’accordo e a far procedere insieme una serie di
personaggi in gran parte sfiduciati” (R. De Felice, op. cit., p. 1227).
Stando
al Diario di Grandi, fu questi a
proporre il piano al re in un’udienza riservata avuta con il sovrano il 4 giugno;
il re approvò, ma pretese che vi fosse il parere favorevole di un organo
costituzionale, come il Parlamento o al più il Gran Consiglio del fascismo: “io
sono un re costituzionale […] deve essere il parlamento ad indicarmi la
strada”, disse a Grandi nel colloquio. Più scettico invece si mostrò sulla
possibilità di rivolgere le armi contro la Germania: egli voleva esautorare Mussolini
e poi sottoscrivere una pace separata con gli anglo-americani. Di fronte alle
perplessità di Grandi che contestava sia la pretesa di far decidere ad un
organo costituzionale, sia la pace che avrebbe suscitato comunque la reazione
vendicativa della Germania, il re rispose: “Ella si fidi del suo re e lavori a
facilitarmi il compito mobilitando l’Assemblea legislativa e magari il Gran
Consiglio come surrogato del Parlamento. […] Si fidi del suo re” (cit. in R. De
Felice, op. cit., p. 1237). E chiese
a Grandi di mantenere il più assoluto segreto su questo incontro. Grandi nel Diario annota che dopo il colloquio con
il re uscì dal Quirinale parzialmente rinfrancato; ma allo stesso tempo
preoccupato che il re potesse approfittare di quel silenzio che gli aveva
chiesto per tergiversare, per non decidere o per mutare ancora idea (cfr. ibidem nota 1). Comunque tenne per sé il
segreto del colloquio e partì per Bologna, dove attese l’evolversi degli
eventi.
Ovviamente
la situazione precipitò subito dopo lo sbarco in Sicilia degli anglo-americani:
il 18 luglio, infatti, Grandi venne informato che alcuni gerarchi del fascismo
avevano chiesto un’urgente convocazione del Gran Consiglio, perciò tornò a
Roma. Mussolini il 19 ebbe un incontro inconcludente con Hitler a Feltre: vi
era andato per ottenere lo sganciamento dell’Italia dalla Germania, così almeno
raccontò il generale Ambrosio presente al meeting, ma Mussolini non riuscì
neppure a prospettare la cosa a Hitler. I partecipanti raccontano di un
Mussolini ammutolito dall’apprendere che proprio in quel giorno Roma veniva
pesantemente bombardata dagli Alleati. Fatto sta che perse un’occasione storica
per porre fine alle sofferenze dell’Italia. Poi il 22 accettò di convocare il
Gran Consiglio per il 24 luglio alle ore 17. Si è molto discusso in sede
storiografica sul perché Mussolini abbia accettato di firmare la convocazione,
se fosse o meno consapevole dei rischi che stavano correndo lui e il fascismo.
Tanto più che alcune fonti fanno pensare che conoscesse il contenuto dell’odg
che Grandi avrebbe presentato (lo dice, ad esempio, Grandi stesso nel suo Diario). Perché allora convocarlo?
Perché non dare ascolto a chi lo metteva in guardia e cercava di dissuaderlo
dall’accettare l’incontro (cercarono di fargli cambiare idea Suardo, presidente
del Senato, Farinacci, Cianetti, la stessa moglie Rachele)?
Il pesante bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma, il 19 luglio 1943 |
La
risposta sta forse nel fatto che M. non attribuiva grande importanza al Consiglio
(che aveva anche un profilo istituzionale molto impreciso, organo più
consultivo che deliberativo), e che anzi la riunione per lui sarebbe servita
per dare soddisfazione ai richiedenti e tacitare i più irrequieti, per
“guardarli negli occhi e metterli in riga”, come disse alla moglie. E a Suardo,
che poco prima della seduta cercò di metterlo in guardia, disse: “voi siete
catastrofico, Suardo, sarà una riunione informativa” (cit. in R. De Felice, op. cit., pp. 1347-1348). Che non prevedesse
una seduta lunga e accalorata lo dimostra il fatto che alla sua segreteria
particolare lasciò l’ordine di mettere in calendario, per la serata, la solita
udienza con Ambrosio (Capo di Stato Maggiore Generale) per fare il punto sulla
situazione militare. Del resto nei giorni tra il 19 e il 25 il re non aveva
preso decisioni significative: il 22 Vittorio Emanuele III aveva avuto un incontro
con Mussolini, ma non gli aveva comunicato nulla di significativo. Piuttosto fu
il duce a chiedere al sovrano due mesi di tempo prima di prendere decisioni
radicali (di cosa parlava? Di una pace separata? Di uno sganciamento dalla
Germania?) e il re glieli concesse: cosa che spiega come mai Mussolini si
fidasse del sovrano e non temesse le deliberazioni del Gran Consiglio; cosa che
spiega anche come mai si sarebbe di nuovo recato tranquillamente da Vittorio
Emanuele dopo la seduta del Gran Consiglio.
Pagina del verbale della seduta del GC del fascismo con l'odg Grandi (ringrazio per le immagini dei documenti il sito instoria.it) |
La
riunione fu convocata ufficialmente per discutere la gravissima situazione
militare. Essa cominciò, alle 17 del 24 luglio 1943 (la ricostruzione dei
complessi retroscena che portarono al 25 luglio è in R. De Felice, op. cit., pp. 1246-1362; la narrazione
della seduta è alle pp. 1362-1383), con la relazione introduttiva di Mussolini che
affermò la necessità di rispettare il patto con la Germania; seguì la
presentazione delle mozioni. Quella di Grandi chiedeva il ripristino delle
funzioni statali e del normale ordine costituzionale, con la consegna al re del
comando delle Forze Armate, come stabiliva l’art. 5 dello Statuto che assegnava
al sovrano questo potere. Farinacci presentò una mozione che egli descrisse
come alternativa a quella di Grandi, ma che nella sostanza diceva le stesse
cose: ripristino dei poteri del re. Infine Carlo Scorza presentò un odg di
sostegno a Mussolini.
Le firme dei membri del GC in calce al verbale |
La
giornata del 25 luglio passò senza che trapelasse alcuna notizia. Alle 16
Mussolini, come ho già detto, si recò dal re con in mano l’esito della
votazione e la legge istitutiva del Gran Consiglio, la quale stabiliva che tale
organo era solo consultivo. Ma il re
stavolta fu risoluto: gli comunicò di averlo sostituito con il maresciallo
Pietro Badoglio e subito dopo lo fece arrestare. Solo alle 22.45 fu data la
notizia, con comunicato ufficiale, cui seguì il famoso discorso radiofonico di
Badoglio, nel quale il maresciallo diceva: “la guerra continua a fianco
dell’alleato germanico”. Dopo la costituzione della Rsi, furono condannati a
morte tutti i membri del Gran Consiglio che avevano votato l’odg Grandi, tranne
Tullio Cianetti che il giorno successivo alla fatale seduta aveva scritto a
Mussolini per ritrattare il suo voto (Cianetti fu condannato a 30 anni di
reclusione). Ben 13 dei votanti si erano messi in salvo per lo più espatriando,
sicché il processo di Verona che comminò le pene (gennaio 1944) emise le sentenze
in contumacia. La pena capitale venne eseguita solo per 5 persone: Ciano, De Bono,
Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi, Luciano Gottardi. Grandi si era messo
in salvo in Spagna già all’inizio di agosto, poi si trasferì in Portogallo dove
visse fino al 1948. Tornò in Italia negli anni Sessanta per aprire una fattoria
nei pressi di Modena. Morirà a 93 anni, nel 1988.
Lo
storico evento del 25 luglio aveva finalmente messo fine al regime fascista, ma
non aveva sfilato l’Italia dalla guerra contro gli anglo-americani, come sperato
da Grandi. Altre tragedie sarebbero occorse alla nazione fino al termine del
conflitto, a cominciare da quell’8 settembre (l’armistizio), di cui, sempre
quest’anno, ricorre il settantesimo anniversario. Di quest’altra data,
importante e tragica, della storia d’Italia scriverò a suo tempo. Intanto
vorrei concludere quanto abbiamo visto in questi due post dedicati al 25 luglio
e a Grandi. Il piano architettato da questi era realistico e irrealistico allo
stesso tempo, come ha scritto De Felice. Era realistico dal punto di vista
politico, poiché l’unico modo per evitare le conseguenze della “resa
incondizionata” era quello di capovolgere la situazione, rompendo l’alleanza
con la Germania e schierando un’Italia in armi dalla parte degli Alleati. Sono
molti i documenti che attestano come vi fosse, sia da parte americana sia da
parte inglese, non solo la volontà di applicare all’Italia il principio della
resa con “una certa elasticità” (parole di Churchill), qualora il re avesse
deciso di schierarsi con l’Alleanza; ma anche una certa aspettativa sul fatto
che l’Italia fosse sul punto di compiere questo passo. Era un piano temerario,
come riconobbe Churchill nel 1950 (cfr. R. De Felice, op. cit., pp. 1203-1204), ma il solo che “poteva essere tentato”.
Il Processo di Verona. Da sx: De Bono (con le mani sul viso), Pareschi, Ciano, Gottardi, Marinelli, Cianetti |
Era
irrealistico, invece, sul piano militare: con quali forze concrete operare quel
capovolgimento? Era assurdo pensare che l’esercito fosse pronto a compiere
questa pericolosa azione, “nello stato d’animo di scoramento e di stanchezza
che ormai caratterizzava larga parte della truppa e ancor più degli ufficiali e
dopo due anni e più di guerra bene o male combattuta al fianco dei tedeschi”
(R. De Felice, op. cit., p. 1203).
Che potesse venire dalla società stessa, dai civili una reazione orgogliosa e massiccia
era altrettanto impensabile: la popolazione era stremata dalla guerra e
soprattutto sbandata, lasciata a se stessa, senza guida politica alcuna. Non c’era
un De Gaulle, in Italia, capace di mobilitare l’intera nazione, al di là delle
appartenenze ideologiche, contro il fascismo. Di lì a qualche settimana, inoltre,
la penisola sarebbe stata spaccata in due dalla doppia occupazione: i tedeschi
al centro-nord, fino alla linea Gustav (Termoli-Gaeta); al sud di Cassino gli
Alleati, che risalirono l’Italia con lentezza ed estrema fatica. A chi
rivolgersi, allora, per realizzare il “piano temerario” anche dal punto di
vista militare? Veniamo qui alla “piccola parte di verità” cui accennavo all’inizio
del precedente post: la Resistenza. Essa sorse nel nord Italia solo dopo l’armistizio
(8 settembre), non prima. Gli uomini che vi presero parte furono degli eroi, ai
quali va tributato il massimo onore: essi decisero di immolarsi combattendo per
la libertà della patria, sognando un mondo migliore e più giusto. Tuttavia
furono pochi. Non un popolo in armi, non una rivoluzione civile capace di
coinvolgere le masse, come accadde altrove (in Francia, in Jugoslavia, in
Cina). Fu un movimento molto, molto minoritario il cui peso militare non era
neppure determinabile nell’estate del 1943. Solo in seguito, verso la fine del
1944, sarebbe stato di un certo rilievo: ma mai in grado, da solo, di scacciare
dall’intera penisola gli occupatori nazisti e i loro alleati della Rsi.
Questo
è appunto il problematico avvio della nostra storia repubblicana: gli italiani,
fino a qualche anno prima soggiogati dalla dittatura o convinti sostenitori di
essa, nel turbine degli eventi del 1943 reagirono in massa con timore,
rassegnazione, egoismo; molti si limitarono a non fare nulla, restarono alla
finestra in attesa degli eventi, cercando di mettersi disperatamente in salvo
(il “tutti a casa” di Alberto Sordi, ricordiamo?). Costituirono quella “lunga
zona grigia” di cui parla De Felice nell’ultimo volume della sua opera, nonché
nel libro intervista Rosso e nero (a
cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995). Solo pochi,
pochissimi presero una decisione coraggiosa: da un lato i partigiani (che si
schierarono dalla parte giusta), dall’altra i volontari “repubblichini” (che
scelsero la causa sbagliata, ma scelsero). Troppo pochi i primi per rendere pienamente
realistico il piano di Grandi. Troppi i secondi per evitare la guerra civile:
che infatti vi fu.
Resta
da valutare la figura di Grandi. Un uomo dalle mille contraddizioni, non c’è
dubbio. Ma ebbe la forza di pensare con la propria testa in un momento tragico
per la nazione, un momento in cui quasi tutti gli altri attori importanti persero
la testa o non la usarono con lucidità. Mancò a Grandi, semmai, la capacità (e
forse anche la volontà) di tradurre il pensiero in azione: si mise in salvo,
anche lui, quando avrebbe potuto impugnare le armi. Si comportò, insomma, come
la maggioranza degli italiani. Peccato. come Mussolini a Feltre, Grandi mancò l’appuntamento
con la svolta storica che, pure, egli stesso aveva contribuito a creare. (2-fine)
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