È passato quasi
un mese dal mio ultimo post. Davvero troppo per un blog, me ne rendo conto. Del
resto ogni volta che preparo un articolo sono solito informarmi, leggere,
pensare e scrivere con attenzione. Non conosco un altro modo per preparare l’esposizione
delle mie opinioni. Leggere, pensare e scrivere con attenzione sono tutte attività
che richiedono tempo. E il tempo è appunto ciò che mi è mancato nelle ultime
settimane. Vorrei poter promettere ai miei 25 lettori che non interromperò più così
a lungo la vita di questo blog, ma non posso farlo: so che accadrà ancora,
quando, imprevedibilmente, l’intersecarsi di lavoro e impegni personali mi
ruberanno ancora il tempo. Perciò chiedo di nuovo perdono e pazienza a chi
vuole seguirmi: ora sono qui, domani e nei prossimi giorni sarò ancora qui. Ma
oltre l’orizzonte di qualche dì non spingo le mie previsioni. Se questa incertezza
non vi disturba troppo, sapete dove trovarmi. Approfitto di questa premessa
al post di oggi per augurare a tutti i lettori un sereno Natale.
Il Welfare State è in crisi! Viva il
Welfare!
Franca
Maino è una ricercatrice del Dipartimento di Scienze sociali e politiche
dell’Università di Milano. Dirige un gruppo di giovanissimi ricercatori che
lavorano nel progetto “Percorsi di secondo welfare” (www.secondowelfare.it), nato nel 2011 da
un’iniziativa del Centro di ricerca Luigi Einaudi di Torino e finanziato dal Corriere della sera, dalla Compagnia di
San Paolo, dalla Fondazione Cariplo, dalla Fondazione con il Sud, dall’Ania e
da alcune aziende italiane che da tempo investono nell’assistenza sociale
(Luxottica e KME Group).
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Franca Maino |
Di
recente la Maino ha pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista Il Mulino, attualmente diretta
dall’economista Michele Salvati, da decenni rappresentante di un think tank laico e cattolico di segno
progressista. L’articolo, comparso sul numero di ottobre della rivista, si
intitola Un secondo Welfare per i nuovi
bisogni (Il Mulino, n. 5, settembre-ottobre 2012, pp. 833-841). L’autrice sostiene che dopo “l’età dell’oro” del Welfare,
verificatasi in Europa tra anni Cinquanta e Sessanta, a partire dalla crisi
degli anni Settanta il Welfare State ha iniziato la sua parabola discendente in
tutti paesi del continente, rivelandosi incapace di sostenere i nuovi bisogni e
i nuovi rischi sociali, nonché i profondi cambiamenti demografici, economici,
sociali e culturali che hanno accompagnato gli ultimi decenni. Di fronte a
queste nuove sfide, le spese pubbliche sono divenute insostenibili, e nel
frattempo il gettito fiscale che le alimentava si è progressivamente ridotto
per effetto dell’arretramento della forza economica delle nazioni europee, incapaci
di resistere alla concorrenza dei paesi che negli ultimi vent’anni sono stati
avvantaggiati dalla globalizzazione: Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa (i cosiddetti paesi del gruppo BRICS).
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I Paesi del gruppo BRICS |
Di
fronte a questa crisi, alcuni paesi sono riusciti a correggere la spesa
pubblica, ricalibrandola e rivedendola, ma soprattutto seguendo rigorose
politiche di bilancio in modo da mantenere in vita un Welfare “universalistico”
e molto generoso: è il caso dei paesi scandinavi. Altri paesi non sono riusciti
ad avviare manovre strutturali di correzione, così si sono trovati negli ultimi
anni con una spesa pubblica fuori controllo. In queste nazioni, l’invecchiamento
della popolazione e il drammatico calo del Pil hanno messo in crisi il Welfare,
non solo perché la spesa pubblica non è stata più sostenuta da adeguati investimenti,
non solo perché non si sono avviate politiche di rigoroso risanamento
contabile, ma anche perché essa è quasi interamente assorbita dalle pensioni,
mentre molto scarsi sono gli investimenti nelle cosiddette politiche di “nuovo
Welfare” (ammortizzatori sociali per la disoccupazione, sostegno alla
maternità, assistenza ai disabili, sanità, istruzione ecc.). In tal modo, in
questi paesi si è creato anche un problema di forte disuguaglianza: alcuni
settori della popolazione (quelli più anziani e quelli occupati in modo più
stabile) sono molto tutelati; altri (quelli più giovani e quelli occupati in
lavori precari) non lo sono quasi per niente. L’Italia è tra questi paesi.
Che
fare? Di fronte al rischio di povertà che in Italia minaccia due famiglie su
tre, di fronte alla disoccupazione giovanile, di fronte alla necessità di
provvedere ad una crescente spesa sanitaria, causata dall’invecchiamento della
popolazione e dal calo tendenziale del gettito fiscale (anche se si recuperasse
l’evasione), infine di fronte al rischio che istruzione e formazione si
impoveriscano sempre più per la riduzione delle risorse, chi deve farsi carico dei nuovi
rischi e delle maggiori spese che ne deriveranno?
La
risposta fornita dalla Maino, e sulla quale sta lavorando il gruppo di ricerca
da lei diretto, è molto chiara: se non vogliamo veder naufragare completamente
i settori della previdenza, dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza
sociale in genere, se non vogliamo veder fallire completamente gli Stati con la
loro capacità di intervento sociale, dobbiamo costruire un “secondo Welfare”,
in cui accanto all’intervento pubblico si preveda la possibilità di intervento
per soggetti privati: “un nuovo Welfare mix,
caratterizzato dall’ingresso nell’arena del Welfare di soggetti non pubblici
come fondazioni bancarie e di comunità, aziende, sindacati, associazioni
datoriali, imprese sociali, assicurazioni, rappresentanti del terzo settore e
volontariato” (art. cit., p. 835).
Un
mix, quindi, in cui a farsi carico
della spesa pubblica non sia solo lo Stato, come è accaduto nel “primo
Welfare”, ma anche privati che, all’interno di norme stabilite da apposite
leggi, potrebbero integrare gli interventi pubblici laddove essi fossero
insufficienti o assenti. È questo, appunto, il “secondo Welfare”. Sarebbe un
Welfare integrativo, ed anche più flessibile perché darebbe spazio a soggetti
che sono più collegati al territorio, quindi più in grado di adattarsi a
specifiche necessità locali: la presenza di anziani non autosufficienti o di
disabili bisognosi di particolare assistenza; la presenza di scuole popolate da
molti studenti extracomunitari o con problematiche particolari; l’elevato tasso
di malati affetti da una patologia specifica, e così via. Tutte situazioni per
le quali è sempre difficile programmare gli interventi dall’alto e
difficilissimo rivederli una volta che l’emergenza dovesse cessare. “Partire
dai bisogni e dalle possibili soluzioni, per poi coinvolgere i finanziatori”:
questo il motto a cui dovrebbe ispirarsi il secondo Welfare.
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Maurizio Ferrera |
La
questione venne affrontata già due anni fa da due articoli, pubblicati dal Corriere della sera, che aprirono il
dibattito sul secondo Welfare: si tratta dell’intervento di Dario Di Vico, Il Welfare dei privati che sostituisce lo Stato (Corriere della sera, 15
giugno 2010), e di quello di Maurizio Ferrera, Per il Welfare serve più spesa (dei privati) (Corriere della sera, 16 giugno 2010). Entrambi gli articoli
descrivono una serie di esperienze dove il mix
di cui parla la Maino sta funzionando: dai fondi integrativi pensionistici
creati da aziende per i propri dipendenti, alle Società di Mutuo Soccorso (come
la “Cesare Pozzo” di Milano) che erogano sussidi sanitari ai propri iscritti;
dal fondo sanitario previsto nel contratto privato dei dipendenti del settore
alimentare, all’assistenza sociale prevista in quello dei chimici; dall’housing sociale attuato da alcune
fondazioni bancarie nelle province di Crema e Milano, all’inserimento
occupazionale per ex carcerati e disabili organizzato da associazioni di volontariato
sostenute da Regioni o Comuni. In alcuni paesi europei, come ricorda Ferrera, esempi
di interventi come questi sono ormai diventati strutturali e sono tutelati da
apposite norme. I passi più significativi fin qui sono stati compiuti dai paesi
scandinavi, dalla Gran Bretagna di Tony Blair (e di recente dal progetto della Big Society di Cameron), dalla Germania
e dalla Francia paesi, questi ultimi, nei quali la mutualità volontaria è più
sviluppata che nei paesi mediterranei. Ferrera (filosofo di formazione,
attualmente docente di Politiche Sociali e del Lavoro presso l’Università di Milano,
nonché supervisore scientifico del progetto diretto da Franca Maino) ricorda
che resta ancora molto da fare in Europa, perché spesso le iniziative di
secondo Welfare sono state ostacolate dalla difesa corporativa di interessi
settoriali, oppure fraintese come un tentativo di liquidazione delle politiche
di spesa pubblica. Non si tratta di questo, invece, bensì di attribuire a parti
della società una frazione di quegli oneri sociali che lo Stato non è più in
grado di sopportare. Ferrera ricorda a questo proposito le parole di Ralph Dahrendorf
(filosofo e sociologo tedesco molto amato dalla sinistra europea) che negli
anni Ottanta affermò: “la condizione economica di molte famiglie consente di
cercare un nuovo equilibrio fra prestazioni offerte e finanziate dalla
collettività e contributo degli individui e delle loro associazioni”.
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Ralph Dahrendorf (1929-2009) |
Ha
speranza di essere seguita questa strada in Italia? Se giudichiamo dai recenti
eventi direi di no o, perlomeno, che sarà arduo, molto arduo anche solo
imboccare il percorso normativo che essa richiederebbe. Mi riferisco a due
eventi: le reazioni sollevate dalle dichiarazioni sulla Sanità pubblica dell’ex
Presidente del Consiglio Monti; l’opposizione-crociata contro il ddl ex Aprea attuata
soprattutto dagli studenti (di cui mi sono occupato nel post del 30 novembre).
“La
sostenibilità futura dei sistemi sanitari nazionali”, ha dichiarato Mario Monti
il 27 novembre scorso, “potrebbe non essere garantita se non si individueranno
nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni. La posta in palio è
altissima”. Parole che hanno scatenato un terremoto, tanto che Palazzo Chigi ha
dovuto rettificare nella serata dello stesso giorno: “Le risorse ci sono, ma
per il futuro serve più innovazione” (cfr. ad es.: Monti: “Servizio sanitario nazionale a rischio”, in Repubblica.it, 27/11/2012). Bersani ha
subito affermato: “No a una sanità per ricchi!”; e la CGIL a ruota: “Se vuole
privatizzare lo dica”; aggiungendo: “Monti vuole affamare la Sanità per poi
svenderla!”. Non è stato da meno Antonio Di Pietro che ha strillato: “La sanità
pubblica non si tocca! Questo governo sta lentamente smantellando lo Stato
sociale!” (cfr. l'articolo sopra citato in Repubblica.it). Non
si pensi che queste condanne siano arrivate solo dalla sinistra. La destra
estrema, quella di Storace ad esempio, non è stata da meno: “Monti smantella il
servizio sanitario”, titolava Il Giornale d’Italia del 27 novembre. E Girolamo Sirchia, che è stato Ministro della
Sanità nel secondo governo Berlusconi, ha definito la dichiarazione di Monti “una
sparata” che crea solo rabbia e allarme (cfr. il sussidiario.net, 28 novembre 2012). Non sono rimasti in silenzio
neppure i “grillini” che, sul blog del loro vate, si sono sfogati con i soliti
insulti e le solite bordate populiste (cfr. Full Monti, in Blog di Beppe Grillo del 27 novembre 2012 e giorni successivi).
Le
espressioni più usate da tutti i critici di Monti sono state: “grave affermazione”;
“inaccettabile”; “si vuole liquidare il Welfare”; “si vuole privatizzare la
Sanità e fare arricchire la finanza e i capitalisti” e così via, seguendo un
repertorio di slogan ideologici molto diffuso in Italia, questo sì davvero bipartisan perché condiviso da tutte le
forze politiche, anche da quelle cosiddette “antisistema” come il movimento di
Grillo. Analoghe erano state le reazioni al ddl ex Aprea, nei confronti del
quale l’accusa di “privatizzazione” della scuola, del tutto pretestuosa e infondata,
è nata in ambienti contigui a quelli di cui sopra. Ma su questo argomento mi
sono già espresso.
Cosa
accade alle menti degli italiani quando si accenna a riforme che mirano ad
integrare il vecchio Welfare con iniziative provenienti dal
mondo privato? Accade questo: la tradizionale sfiducia cattolica nei confronti
del singolo, unita al pregiudizio marxista nei confronti di tutto ciò che ha a
che vedere con l’iniziativa individuale producono una reazione socio-politica
capace di generare una sorta di Santa Alleanza. L’obiettivo di questa è la
difesa dell’esistente, soprattutto in relazione a tre ambiti: la sanità pubblica,
l’istruzione pubblica, la tutela pubblica sul lavoro. La difesa di questi tre
ambiti per gli orfani del marxismo è diventata una sorta di ultima spiaggia
nell’eterna sfida contro il "capitalismo affamatore delle plebi"; per il cattolicesimo
sociale e statalista è diventata invece l’occasione per ripetere una tradizionale
condanna pauperistica, quella contro il denaro che, come dicevano i monaci e
gli eretici medievali, va disprezzato perché è lo “sterco del diavolo”. Secondo
gli uni e gli altri, denaro, iniziativa privata, intervento del singolo e volontariato
non devono trovare alcuno spazio in settori nei quali solo lo Stato ha il diritto
di possedere il monopolio esclusivo.
Eppure
in altri paesi l’hanno capito. Esiste l’intervento pubblico dello Stato, ma
esiste anche il privato-pubblico: volontariato, cooperative, mutue, terzo
settore onlus (non a caso denominato “privato-sociale”), fondazioni, aziende che
investono nel sociale. Si tratta di realtà che, sebbene create da soggetti
privati, producono servizi di pubblica utilità, affiancando o sostituendo le
istituzioni dello Stato laddove queste non arrivano, non sono sufficienti o il
cui intervento sarebbe troppo oneroso per i contribuenti. Come gli studi di
Ferrera e Maino hanno dimostrato, questa è la strada che hanno imboccato in
Europa le nazioni più evolute. Lo Stato deve fissare i criteri, certamente, deve
esercitare il controllo, deve verificare l’efficacia del servizio erogato;
perciò la sua funzione regolatrice non verrebbe mai meno. Ciò che verrebbe
ridotto, se si lasciasse spazio a quei soggetti privati, sarebbe l’intervento
diretto delle istituzioni pubbliche nell’erogazione del servizio. Riduzione non
significa liquidazione, né privatizzazione. E del resto l’idea che solo lo
Stato possa garantire equità, efficienza e democrazia è davvero balzana: burocrazia
elefantiaca e monopolio non hanno mai prodotto buoni servizi, uguaglianza e
libertà. Semmai, come la storia ci attesta, hanno contribuito a rafforzare il dispotismo
e la corruzione. Forse noi italiani non riusciamo ancora a liberarci dall’eredità
dello statalismo fascista che, come si sa, menava gran vanto di due sue caratteristiche
ideologiche: l’anticapitalismo e l’anti individualismo.
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