Fine di una dittatura.
Dino Grandi e la seduta del Gran Consiglio del fascismo
(prima parte)
La seduta del 24-25 luglio 1943 del Gran Consiglio del fascismo |
Oggi
è il 70° anniversario della seduta del Gran Consiglio del fascismo che depose
Mussolini e pose fine alla dittatura. Per questo dedicherò due post ad uno
degli avvenimenti più importanti della nostra storia contemporanea. Negli anni
Sessanta e Settanta schiere di giovani studenti sono stati indottrinati,
insegnando loro che il fascismo è caduto grazie alla lotta del popolo guidata
dai partigiani. Una rivoluzione, quindi, avrebbe sconfitto e abbattuto il
regime, poiché, come si spiegava allora nei licei, il popolo italiano era del
tutto avverso al fascismo, e aveva subito la dittatura per vent’anni senza mai
accettarla, piegando la testa per necessità davanti alla spietata violenza del
regime.
Era
questa la cosiddetta “vulgata dell’antifascismo” che conteneva solo una piccola
parte di verità, come vedremo al termine di queste due puntate. Oggi questa
“verità convenzionale” è stata messa in discussione e, contro essa, è stata
fatta valere la forza inoppugnabile dei fatti. Merito principale di questa
operazione (che alcuni hanno voluto chiamare, spregiativamente, “revisionista”)
va a Renzo De Felice e alla sua monumentale biografia su Mussolini (vedi nota 1),
pubblicata tra gli anni Sessanta (in un’epoca in cui il clima politico gli era
fortemente avverso) e i Novanta (quando ormai anche i suoi più irriducibili
nemici, come Nicola Tranfaglia, cominciavano ad ammettere la fondatezza degli
argomenti di De Felice). Su di essa baserò la narrazione che segue, in specie
sul volume IV-1, intitolato Mussolini l’alleato.
L’Italia in guerra (1940-1943), e in modo particolare sul secondo tomo di
questo, a cui De Felice attribuì il significativo titolo Crisi e agonia del regime (Torino, Einaudi, 1996).
Non
mi soffermerò, quindi, sullo sbarco degli Alleati in Sicilia (10 luglio 1943),
evento al quale si deve la crisi conclusiva del fascismo: non tanto perché non
si tratti di questione importante, poiché lo è, dal momento che da esso arrivò in
effetti la fine della dittatura. Non lo tratterò, perché oggi ricordiamo il 25
luglio 1943, quando Mussolini venne deposto, avvenimento che fu senz’altro
provocato dallo sbarco alleato, ma che ebbe comunque una sua dinamica autonoma,
un suo perché e un suo come. È su questi aspetti che mi soffermerò, a
cominciare dall’uomo che tramò contro il duce: Dino Grandi.
Com’è
noto, infatti, la deposizione del dittatore si dovette alla votazione, da parte
della maggioranza dei membri del Gran Consiglio, dell’ordine del giorno Grandi.
Perciò il personaggio e le motivazioni che lo spinsero a quel passo costituiscono
fonte di interesse per lo storico che voglia capire come si arrivò al voto del
fatidico giorno.
La
vicenda personale di Dino Grandi (1895-1988) è inoltre utile per comprendere quella
peculiarità del fascismo che la Arendt definì “totalitarismo imperfetto”.
Uomini come Grandi, infatti, erano ben lontani dall’essere succubi devoti al
leader; egli, come altri fascisti del resto, covò contro Mussolini un sordo ma motivato
dissenso, il quale era aumentato mano a mano che l’edificio della dittatura era
stato portato a termine.
Alla
vigilia della prima guerra mondiale, Grandi (avvocato di professione) fu vicino
al Psi: così conobbe Mussolini, che era ancora su posizioni
socialiste-rivoluzionarie, con cui approfondì l’amicizia negli anni
dell’interventismo. Dopo la guerra, a cui partecipò, Grandi aderì al fascismo,
anzi fu tra i fondatori dei fasci emiliani tra il 1920 e il 1921, molto vicino
alle posizioni dello squadrismo più facinoroso: nel giugno 1921 guidò l’assalto
al circolo socialista “Andrea Costa” di Imola; l’anno dopo guidò 2000 camicie
nere all’occupazione di Ravenna. Il suo prestigio crebbe così tanto all’interno
del movimento fascista che prima del congresso del Pnf del novembre 1921,
tenuto a Roma, egli fu il potenziale avversario e sostituto di Mussolini alla
guida del partito. Suo punto di forza, in quel momento, era l’avversione al
progetto di Mussolini di realizzare un patto di pacificazione e collaborazione
con i socialisti. Nel corso del congresso di Roma, Grandi accettò la
subordinazione al capo in cambio della cancellazione di questa proposta.
Grandi ambasciatore a Londra: qui con il segretario di Stato britannico John Simon |
Malgrado
l’impetuoso avvio, con il tempo Grandi divenne l’anima moderata del fascismo,
insieme a Bottai, Balbo e Federzoni; mentre Starace, Farinacci e De Bono ne
rappresentarono l’anima più populista e manesca. E infatti dopo il 1922 Grandi ricoprì
incarichi nei quali servivano moderazione, diplomazia, buone maniere:
sottosegretario all’interno e agli esteri dal 1924 al 1929, ministro degli
esteri dal 1929 al 1932, ambasciatore a Londra dal ’32 al ’39, successivamente ministro
della giustizia e infine presidente della Camera dei fasci e delle
corporazioni. La rete consolare da lui creata, capillare ed efficiente, è
ancora in parte esistente, inoltre lo spirito con cui svolse l’incarico di
ministro degli esteri fu di moderazione e di collaborazione con le altre
nazioni. In tal modo contribuì non solo ad accrescere il prestigio
internazionale dell’Italia, ma soprattutto a rendere affidabile la politica
estera italiana, malgrado i proclami aggressivi del duce. Nelle relazioni con
Francia e Inghilterra lasciò persino trapelare che l’Italia sarebbe stata
disponibile a discutere del disarmo. Fu questo che obbligò Mussolini a prestare
attenzione al comportamento del suo ministro degli esteri, del quale temeva il
prestigio, come in passato ne aveva temuto la reputazione all’interno del
partito. Sicché lo rimosse dal ministero e lo spedì a Londra: promoveatur ut amoveatur. Qui, come
ambasciatore, cercò di convincere la classe dirigente britannica ad avvicinarsi
all’Italia e a prendere in considerazione una possibile alleanza. Trovò udienza
in Churchill, allora ancora ben disposto verso il fascismo, ma quando Mussolini
sottoscrisse l’Asse (1936) la sua iniziativa venne stroncata.
Achille Starace (1889-1945) |
Rimase
sempre un po’ distaccato e in conflitto con la classe dirigente fascista che
egli reputava provinciale, poco raffinata, populista e un po’ ruffiana: egli
amava invece l’indipendenza di giudizio e la raffinatezza dei modi, vantava
amicizie altolocate all’estero (solo Ciano, divenuto ministro degli esteri nel
1936, poteva vantare uguali relazioni), simpatie all’interno della monarchia (Vittorio
Emanuele III lo nominò conte di Mordano e gli conferì anche il Collare
dell’Annunziata, con la conseguenza di diventare “cugino del re”). In
particolare Grandi detestava personaggi come Achille Starace (nominato
segretario del Pnf nel 1931), ideatore delle più goffe campagne
propagandistiche del regime (l’italianizzazione dei cognomi, il saluto romano a
170°; il “voi” al posto del “lei”, l’obbligatorietà della divisa il sabato – il
sabato fascista, le manifestazioni ginniche con il salto nel cerchio di fuoco,
l’uso di espressioni liturgiche come “granitico blocco”, “adunate oceaniche”,
le scritte con slogan fascisti sulle facciate delle case, l’uso dell’orbace…).
Di Starace, Grandi diceva che era il prototipo dello “stupido in orbace”, in
fondo non cattivo, ma un “pover’ uomo”. Rappresentava l’idiota obbediente, devoto
al duce fino a diventare ridicolo. Alle perfidie di Grandi, una volta pare che
Mussolini abbia risposto: “è vero, Starace è un cretino, ma è obbediente”. Mentre
Grandi era spesso insubordinato. In effetti pare avere confidato a Ciano, nel
1942: “Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista per vent’anni”.
Per
Grandi fedeltà non era sinonimo di obbedienza: “non ho mai considerato
Mussolini – scrisse nelle sue memorie– come un essere cui mi sentivo legato da
obblighi di fedeltà personale e cieca […]. Non è stato per me, mai, altro che
uno strumento di bene, o di male, per il paese. È al paese, non a lui, cui
sentivo il dovere di essere fedele” (D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice,
Bologna, Il Mulino, 1985, p. 381, cit. in R. De Felice, op. cit., p. 1230). Sicché assunse sempre posizioni decise
autonomamente e solo in qualche caso coincidenti con quelle di Mussolini e del
fascismo. Dall’epoca del suo impegno come ambasciatore a Londra, cominciò a
ritenere il fascismo un fenomeno transitorio, manifestò scarso interesse per le
fumisterie ideologiche, a cominciare dal corporativismo, prese ad ammirare
l’Inghilterra, cominciò a non scoprirsi troppo, a rimanere appartato il più
possibile a non confondersi con gli altri gerarchi: cose che non lo rendevano
simpatico. Ciano era invidioso di lui e delle sue entrature internazionali;
Bottai gli rimproverava di non sbilanciarsi mai e di essere aristocratico e
anglofilo; Farinacci di essere un doppiogiochista; Mussolini di non essere obbediente
e di essere poco affidabile come fascista. Con alcuni di costoro, ad esempio
Bottai e Ciano, entrò in sintonia dopo lo scoppio della guerra, perché come lui
diventarono contrari alla partecipazione italiana al conflitto.
Tutto
ciò è importante per capire il comportamento di Grandi dal 1942 al 1943. Nel ’42,
appunto, confidò a Ciano e a Bottai che occorreva scindere il fascismo, ma
soprattutto l’Italia, dalla figura del duce e dagli errori del regime. Secondo lui,
occorreva riconoscere il fallimento della dittatura, e quindi effettuare un
vero e proprio “suicidio” per salvare la nazione. Scrisse nel suo diario un
paio di mesi prima del 25 luglio: “Siamo noi che, indipendentemente dal nemico,
dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. […]
Mussolini, la dittatura, il fascismo devono sacrificarsi, cedere il posto ad
una nuova classe dirigente. Debbono ‘suicidarsi’ dimostrando con questo
sacrificio il loro amore per la Nazione” (cit. in R. De Felice, op. cit., 1201). Grandi sapeva che gli
anglo-americani, avendo stabilito a Casablanca, nel gennaio 1943, il principio
della “resa incondizionata”, non sarebbero stati clementi con l’Italia, ma
nelle loro dichiarazioni ufficiali gli Alleati dicevano di non essere nemici
del popolo italiano, bensì solo della dittatura fascista. “Questa, si capisce,
è mera propaganda di guerra – annotò alla data del 20 maggio ’43 – […]. Ma noi
dobbiamo fare finta di credere ai discorsi di Churchill e di Roosevelt ed
operare noi, da soli, come atto di volontà nostra, il chirurgico distacco del
regime di dittatura dalla Nazione”. Grandi era consapevole delle difficoltà che
un simile progetto avrebbe incontrato, e infatti, proseguendo la sua lunga
annotazione, scrisse: “Come può in pratica avvenire tutto ciò? Mussolini non
cederà mai il suo posto di comando”. Perciò occorreva un piano, magari
temerario ma inevitabile, se si voleva salvare l’Italia. Il piano e la sua
realizzazione saranno l’argomento del prossimo post. (1-continua)
1) La biografia di
De Felice su Mussolini si compone dei seguenti volumi, tutti editi da Einaudi: vol.
I: Mussolini il rivoluzionario
(1883-1920); vol. II: Mussolini il
Fascista, suddiviso in: vol. II-1: La
conquista del potere (1921-1925), vol. II-2: L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929); vol. III: Mussolini il duce, suddiviso in: vol.
III-1: Gli anni del consenso 1929-1936,
vol. III-2: Lo Stato totalitario
1936-1940; vol. IV: Mussolini l’alleato,
suddiviso in: vol. IV-1: L’Italia in
guerra 1940-1943 (diviso, a sua volta, in due tomi: Dalla guerra breve alla guerra lunga; Crisi e agonia del regime); vol. IV-2: La guerra civile 1943-1945. Il primo volume fu pubblicato nel 1965,
l’ultimo, postumo, nel 1997.
L'ultimo volume della biografia defeliciana su Mussolini: pubblicato postumo, si intitola La guerra civile 1943-1945 |
Nessun commento:
Posta un commento