6a e ultima parte. Conclusione: i giovani di oggi tra incertezza,
solitudine e indifferenza.
I dati Iard visti l'altra volta contraddicono la vulgata conformistica che dagli anni Sessanta sentiamo
ripetere continuamente dai mass media, ovvero che sono le condizioni economiche
a rendere difficile l’ingresso nella vita adulta. Certo, la crisi economica
attuale ha reso difficile l’acceso al lavoro (particolarmente in Italia dove le
tutele nei confronti del lavoro avvantaggiano quasi esclusivamente le
generazioni passate) e forse, se continuerà la spirale negativa, anche le sicurezze
che finora le famiglie hanno saputo garantire ai giovani potrebbero essere
minacciate in modo grave; ma anche quando le cose andavano bene certi
comportamenti giovanili erano presenti, come se essi fossero una tendenza
culturale di fondo, poco sensibile al variare delle condizioni materiali.
Insomma, se il disagio giovanile c’è, non è più nella direzione del disagio
materiale che si deve guardare: forse questo discorso poteva avere un senso 50
anni fa, di certo non oggi. I rapporti Iard insistono piuttosto su tre
dimensioni dei giovani di oggi: incertezza, solitudine, indifferenza.

La
solitudine deriva dalla sensazione di muoversi in un mondo che non
promette più molte protezioni sociali, e nel quale non vi sono più neppure
molte figure di riferimento alle quali affidarsi per le scelte: scuola,
istituzioni, famiglia non sembrano soddisfare l’esigenza del giovane di avere
qualcuno su cui contare per decidere. Attenzione: non si tratta di una mancanza
della famiglia dal punto di vista delle sue responsabilità economiche, ma
semmai della mancanza del ruolo educativo della famiglia. La famiglia è molto
presente dal punto di vista materiale, svolge un ruolo di soddisfazione dei
bisogni materiali e di consumo dei giovani, anzi spesso sollecita e incentiva
bisogni e consumi. Ma i genitori di oggi, almeno quelli che hanno figli con
meno di 15 anni, tendono a sfuggire al loro ruolo di modello comportamentale e
a quello di guida educativa. I genitori, più sono giovani, meno sono presenti
dal punto di vista educativo, ruolo considerato vecchio e non al passo con i
tempi: anche i genitori preferiscono, al vecchio ruolo dell’educatore,
l’affermazione della propria personalità in altri ambiti, come lo sport, il
fitness, il divertimento, la tecnologia, i viaggi, le vacanze e così via. Sono
genitori, quindi, che si sono assimilati ai giovani, mentre un tempo erano i
giovani che chiedevano di essere assimilati al mondo dei genitori. Questa
latitanza educativa della famiglia si somma ad una generale latitanza del ruolo
degli adulti nella società odierna: essendosi dilatata a dismisura la nozione
di giovane, e raccogliendo essa al suo interno praticamente quasi tutte le
classi di età, forse con la sola esclusione, per ora, degli ultrasettantenni, è
ovvio che nessuno si qualifichi più come adulto e in tal modo è venuta meno la
funzione dell’adulto: quella funzione che dà stabilità, sicurezza, saggezza,
equilibrio, oltreché protezione. Per tutte queste ragioni sono in crescita i
giovani che denunciano una condizione di solitudine.
Infine
l’indifferenza. Anche qui occorre fare attenzione: i giovani di oggi non
sono indifferenti ai valori in senso assoluto, ma semmai interpretano i valori,
anche quelli più tradizionali, in senso ultra-individuale. Al primo posto,
nella gerarchia dei valori dei giovani di oggi vi sono quelli connessi alla
vita individuale: amicizia, amore, famiglia, carriera e lavoro,
autorealizzazione, ottenimento di una vita confortevole e agiata. Subito dopo
vi sono i valori di tipo evasivo, collegati alle attività sportive, allo svago
e al tempo libero, al divertirsi e al godersi la vita in modo spensierato. Per
ultimo vi sono i valori legati alla vita collettiva e all’impegno personale:
solidarietà, libertà, democrazia, patria; attività politica, impegno religioso,
impegno sociale, studio e interessi culturali. I valori che interessano di più,
quindi, sono quelli collegati alla sfera della socialità ristretta e della vita
privata, a scapito soprattutto dell’impegno collettivo.
Anche il lavoro o la
carriera non sono apprezzati per se stessi, o perché in essi si vede un mezzo
concreto per fornire il proprio contributo alla civiltà e al suo progresso, non
vi è una diffusa etica del lavoro tra i giovani di oggi: lavoro e carriera sono
apprezzati perché servono per avere i mezzi necessari per ottenere ciò che
veramente conta, ovvero la vita di relazione con gli amici, il divertimento, il
consumo, obiettivi al cui raggiungimento si affida l’autorealizzazione
personale. I valori collettivi, come la libertà o la democrazia, o quelli
relativi all’impegno sociale, come la solidarietà, non mancano nell’universo
etico dei giovani, ma sono visti non tanto come virtù civiche che comportano
qualche sacrificio, né come conquiste collettive, ma come valori che servono a
definire meglio la propria individualità: essi appaiono come diritti da far
valere verso gli altri, non come dovere verso gli altri.
Anche i valori
collettivi, insomma, sono declinati in senso ultraindividuale, servono per la difesa
della propria socialità ristretta, per definire meglio il proprio contorno
sociale, quello in cui si vive, il nucleo delle proprie relazioni primarie, il
proprio bozzolo. Se vi è adesione ad ideologie forti, come la simpatia verso
partiti estremi o movimenti di contestazione radicale, tali scelte appaiono più
come nicchie mitologiche in cui rifugiarsi per trovarvi certezze e protezione;
ugualmente dicasi per la scelta religiosa (quasi l’80% si dichiara cattolico):
essa appare come un modo per rafforzare la propria identità personale, per
trovarvi conforto e sicurezza, per cercarvi solidarietà umana e amicale,
insomma per stare meglio. Né l’impegno politico, né quello religioso vengono
visti come scelte obbliganti verso la società e verso gli altri tali da
impegnare il singolo a scelte di rinuncia o di sacrificio personale, scelte che
vengono percepite come “uno stare peggio, uno stare male”. Quindi, più che di
indifferenza verso i valori, bisognerebbe parlare per i giovani di oggi di
trionfo della sfera personale e individuale dei valori, sfera che si dirige
fortemente verso l’egotismo (ovvero verso il giudicare il benessere personale
l’unico criterio di giudizio morale e criterio di orientamento dell’azione). Ne
consegue un insieme di atteggiamenti e di orientamenti che sembra sempre più
rinserrarsi nella ristretta cerchia degli affetti sicuri, delle certezze che
derivano solo dallo stare insieme a chi condivide gli stessi giudizi, gli
stessi orientamenti, le stesse mode, gli stessi gusti, lo stesso ambiente
sociale.
Incertezza,
solitudine e indifferenza spiegano il rapido diffondersi, amplificato dai mezzi
di comunicazione, di atteggiamenti eccessivi e smodati da un lato e dall’altro
della ricerca continua del gruppo, del branco, della compagnia. La prima cosa è
il risultato del desiderio di affermazione e di protagonismo, mete ritenute
irrinunciabili per l’autorealizzazione e per l’affermazione all’interno del
proprio gruppo; la seconda, scambiata erroneamente dagli adulti come “capacità
di socializzazione”, corrisponde alla ricerca di sicurezza, di sostegno e di
certezze che non ci si sente in grado di costruire da soli, basandosi sulle
proprie forze e capacità.
Sono
dati poco incoraggianti, soprattutto perché ci mostrano una gioventù sempre più
edonistica, sempre più sfiduciata nei confronti delle istituzioni e dei valori
collettivi, sempre più conformista rispetto ai mass media, sempre più
relativista in fatto di valori (il 54% dei giovani nel 6° rapporto afferma che
“nessuna scelta è mai per sempre”), eppure sempre più alla ricerca di sicurezze
assolute e sempre più incapace di progettare il proprio futuro, sia perché la
dimensione del presente immediato è quella che le interessa, sia perché è
disorientata da un mondo che si allarga sempre più e che sembra non dare alcuna
garanzia riguardo al futuro, mentre le generazioni precedenti hanno goduto di
molte certezze.
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Franco Garelli |
Anni
fa Franco Garelli, un sociologo italiano, andando un po’ controcorrente,
scrisse che l’uso del termine disagio riferito ai giovani è diventato di moda
in Italia, una sorta di imperativo culturale, uno stereotipo che si deve
seguire per essere ascoltati (Franco Garelli, Stereotipi sui giovani e questione educativa, in Il Mulino, n. 385, a. XLVIII,
settembre-ottobre 1999, pp. 871-881). La conseguenza più deleteria di questa
moda è che essa finisce per sollecitare in tutti (istituzioni, educatori,
famiglia mass media) un eccesso di protezione e di prudenza nei confronti dei
giovani che non aiuta la loro maturazione: rinvio delle scelte, inserimento
morbido e ovattato nella società, tutela per evitare ogni rischio e ogni
difficoltà, tutto ciò in Italia è diventato obbligatorio proporlo ogni volta
che si parla dei giovani perché, si dice, così li si aiuta a superare il
disagio della loro condizione. Invece in questo modo, afferma Garelli, il
“disagio” si produce davvero, poiché l’eccesso di prudenza e di protezione
favorisce la deresponsabilizzazione e la passività sociale. Con questo Garelli
non vuol dire che i giovani non abbiano problemi da risolvere, ma che questi
problemi sono tutti risolvibili e non sono differenti da quelli che da sempre
ha affrontato il giovane per diventare adulto. Il disagio, quindi, è
risolvibile. In altre società, ad esempio quelle anglosassoni, i giovani sono
sollecitati da messaggi e imperativi culturali come “lasciare casa in fretta”,
tagliare il cordone ombelicale con la famiglia di origine, non per ripudiarla
ma per costruire un proprio cammino di vita e di esperienza. Da noi, invece,
domina la prudenza e la tendenza a proteggere a tempo indeterminato i propri
figli: così si crea dipendenza, si prolunga l’adolescenza, si ritardano le
scelte adulte, si genera passività e abulia, indifferenza e noia. Una
condizione che produce a sua volta quell’insofferenza rabbiosa e maleducata
che, non indirizzata verso mete costruttive, può sfociare in conati improvvisi
di violenza distruttiva e autodistruttiva: resa particolarmente pericolosa dai
molti mezzi su cui oggi possono contare i giovani, e dalla tendenza
all’assoluzione che caratterizza sia il sistema educativo che quello della
comunicazione. Garelli conclude con una proposta: che gli adulti facciano
davvero gli adulti e la smettano di scimmiottare gli adolescenti, poiché il
problema di fondo, in Italia, è proprio questo: l’estinzione della categoria
sociologica dell’adulto.
Essere
adulto vuol dire sapersi assumere responsabilità, naturalmente, ma soprattutto
essere un modello forte per i giovani, ed esserlo praticando i valori che si
predicano: un insegnante, un genitore, un allenatore sportivo che predicano
onestà, rigore, impegno, sacrificio e che poi si muovono e si comportano come i
propri figli e alunni, scansando impegno e sacrifico attraverso mille furberie,
diventano figure scialbe, prive di forza, incapaci di proporsi per la propria
esemplarità, perché si confondono con i modelli giovanili. Insomma, è l’adulto
che manca nella società italiana, poiché quelli che anagraficamente dovrebbero
svolgere questo ruolo risultano, come dice Garelli, “emotivamente inadatti”. Inutile
fare corsi e progetti sulle problematiche educative che riguardano i giovani
(l’educazione sessuale, l’educazione alla legalità, l’educazione al rispetto
degli altri…): sono tutti interventi per lo più informativi, nati dall’opinione
diffusa che per educare a quei problemi “occorra parlarne”, come se
l’informazione sia già un fatto educativo. Mentre l’educazione emerge, quando
emerge, da un lungo processo di contatto con adulti che cercano di seguire
valori nella vita quotidiana, dalla osservazione dei loro comportamenti: se
stimolati da queste persone, i giovani impareranno poi a cercare da soli il
modo per dare forma alla propria volontà di realizzazione, anziché cercare di
fare un’improbabile rivoluzione che, avendo come obiettivo implicito quello di
essere ancora più coccolati e di ricevere ancora più indulgenza giovanilistica,
è destinata ad essere sempre “spuntata”.
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Giovani "indignados" alle recenti manifestazioni avvenute in Spagna |
Se
proprio i giovani italiani di oggi volessero essere rivoluzionari “duri e puri”,
l’unica rivoluzione che mi sento di suggerir loro è di imparare ad essere
autonomi, di saper far da soli, di non temere l’assunzione delle responsabilità:
comportamenti che implicano sia la capacità di rinunciare alle comodità che il
mondo degli adulti può offrire loro, sia quella di sapersi liberare
dall’obbligo conformistico di seguire inebetiti le mode del momento. Autonomia
e libertà comportano la forza, quando serve, di essere controcorrente. Gli
adulti italiani, da parte loro, dovrebbero impegnarsi di più nell’educazione
dei propri figli, impegno che implica l’essere pronti a sanzionare
comportamenti sbagliati, l’essere pronti a dire di “no” quando serve. Ma
soprattutto implica la capacità di praticare i valori, di sapersi distinguere
dai giovani, di sapere riconoscere e accettare le proprie responsabilità,
liberandosi dall’ossessione di inseguire le mode giovanili per ingannare il
tempo che passa e per non fare i conti con la propria età. I giovani hanno il
diritto (e forse anche il dovere) di confrontarsi e di scontrarsi con gli
adulti, ovvero con chi è distinto e diverso dal proprio mondo. Gli adulti hanno
il dovere (e forse anche il diritto) di insegnare e di far rispettare regole e
norme di comportamento, senza le quali non esisterebbe alcun tipo di società. Il
conflitto tra generazioni è già in questa semplice ma vitale dialettica, senza
andare alla ricerca di ideologie “giovaniliste” per amplificarlo o per
esorcizzarlo. E ogni conflitto generazionale dovrebbe terminare con i giovani
che sostituiscono i vecchi e con questi ultimi che sanno farsi da parte quando
arriva il momento. Se vogliamo essere un “paese normale” in cui convivano
giovani, adulti e vecchi dobbiamo sbrigarci a comprendere queste semplici
leggi. Prima che sia troppo tardi.
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