sabato 29 dicembre 2012

In piazza contro Assad?


Chi scende in piazza per i Siriani?

Assad come “Che” Guevara?



Qualche anno fa, leggendo il volumetto di Alvaro Vargas Llosa, Il mito Che Guevara e il futuro della libertà (tr. it. Torino, Lindau, 2007) mi sono chiesto perché in Europa la cultura di sinistra rimanga sempre profondamente affascinata dalle personalità dei tiranni sanguinari, come furono appunto Ernesto “Che” Guevara, oppure, molto prima, Lenin o Stalin, o ancora, più o meno contemporaneamente all’eroe sudamericano, Mao Tse-tung o Pol Pot. L’autore del libretto (figlio del noto scrittore peruviano Mario Vargas Llosa) afferma che la tirannia ha numerosi volti, alcuni di destra, alcuni di sinistra; che talvolta le innumerevoli forme assunte dall’oppressione si rivestono di richiami alla giustizia sociale, mentre talaltra di richiami alla sicurezza; che sempre tali richiami servono per abbellire l’ideologia o il regime e ingannare così gli individui, convincendoli a sostenerli. Ma in ogni caso, secondo Alvaro Vargas Llosa, chi sostiene queste tirannie si sottomette ad una “servitù volontaria”, conseguenza di una debolezza della mente tipica di quegli uomini che tendono a seguire il messaggio più accattivante e che più li lusinga: ogni tiranno, conclude l’autore citando il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de la Boetie (1530-1563), è tale perché il potere gli viene concesso da moltitudini che credono in lui e che lo venerano come una semi-divinità. “Riconoscere e denunciare il subdolo meccanismo psicologico per mezzo del quale i nemici della libertà cercano di indurci ad accettare una servitù volontaria è uno dei compiti più urgenti del nostro tempo. Saper distinguere la verità dalle più o meno raffinate imposture che proclamano la liberazione dell’umanità dal dispotismo, dall’ingiustizia o dalla fame è il primo passo verso una società libera. La liberazione dell’individuo è in primo luogo una liberazione della mente” (A. Vargas Llosa, op. cit., pp. 7-8).
Alvaro Vargas Llosa

Il caso di “Che” Guevara è emblematico. Era un sanguinario, violento e tirannico, un uomo che provava piacere a distruggere le vite di coloro che giudicava di intralcio per il raggiungimento dei suoi scopi, incapace di usare il potere per costruire sviluppo, pace e libertà. Un uomo che, come tanti “caudillos” latino-americani, ha lasciato dietro di sé corpi trucidati, lunghe scie di sangue, dozzine di cadaveri: un colpo di pistola alla tempia era per lui il modo più giusto per dirimere le questioni politiche e convincere gli esitanti. “Che” Guevara assassinò personalmente o supervisionò l’esecuzione, dopo un processo sommario, di decine e decine di persone, alcuni erano nemici della rivoluzione cubana, altri semplici sospetti, altri ancora sventurati che si erano trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato (cfr. ivi, p. 19). Quando fu posto da Castro alla direzione della prigione di La Cabaña, nella prima metà del 1959, ebbe modo di manifestare appieno quanto fosse spietato, diventando una vera e propria “macchina assassina a sangue freddo”: in quella prigione in sei mesi vennero giustiziati dai 200 ai 700 oppositori; la condanna era in genere eseguita di notte, da lunedì a venerdì, subito dopo un veloce processo la cui sentenza veniva immediatamente confermata dalla corte d’appello. Alcune fonti affermano che i trucidati siano stati molti di più, forse addirittura duemila. Nello stesso anno il “Che” prese parte alla costituzione del G-2, una polizia politica modellata sulla Čeka sovietica, di cui divenne capo Ramiro Valdes, fedelissimo di Guevara; poi assunse la direzione del G-6, l’organo incaricato dell’indottrinamento ideologico delle forze armate. I due organismi, praticamente entrambi controllati dal “Che”, furono i pilastri dello Stato di polizia eretto dal comunismo cubano. 

La fortezza di La Cabana: divenne una orrenda prigione cubana
diretta nel 1959 dal "Che"
La fallita invasione della Baia dei Porci, realizzata con il sostegno degli Stati Uniti nell’aprile del 1961, fu l’occasione per verificare l’efficienza del sistema di repressione creato da Guevara e da Castro: decine di migliaia di cubani furono rastrellati e fu ordinata una nuova serie di esecuzioni capitali (cfr. ivi, pp. 24-25). Il “Che”, infine, fu il più solerte organizzatore-edificatore dei campi di concentramento cubani, come quello di Guanahacabibes, attivo già alla fine del 1960. Dal 1965 in poi, tutta la provincia di Camaguey è diventata meta di confino e lavori forzati per dissidenti, omosessuali, vittime dell’AIDS, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri indesiderabili. Così Vargas Llosa descrive la terribile odissea dei confinati: “Stipati su autobus e autocarri, questi ‘rifiuti’ venivano trasportati sotto la minaccia delle armi in campi di concentramento sul modello di Guanahacabibes. Alcuni non avrebbero mai più fatto ritorno, altri sarebbero stati seviziati, picchiati o mutilati. Quasi tutti sarebbero rimasti traumatizzati per il resto della loro vita, come nel 1984 ha mostrato a tutto il mondo lo straziante documentario Cattiva condotta” (ivi, pp. 26-27).
Ernesto "Che" Guevara (1928-1967) in una delle sue
sprezzanti "pose"

Potrei continuare ancora a citare l’interessante volume di Vargas Llosa, ad esempio ricordando quanto il “Che” fosse attratto dalle proprietà altrui e fino a che punto si spinse per giustificare la sua visione di rivoluzione come furto puro e semplice, ruberia, ladrocinio. Il “Che” fu un uomo la cui attività politica è stata ispirata al puro esercizio del potere e mossa da un brutale istinto predatorio (ivi, pp. 24-25). Eppure non c’è figura di rivoluzionario che in Occidente goda di più fortuna di quella del “Che”. La sua immagine è diventata addirittura un’icona del consumismo di massa: stampata su magliette, felpe, bandane, tazze da tè essa è per moltissimi giovani occidentali (europei in primo luogo, soprattutto italiani) il simbolo della lotta contro la sopraffazione, il simbolo della ribellione contro l’autoritarismo in nome della libertà dei popoli oppressi della Terra. E, naturalmente, personaggi e divi dello star system non mancano di farsi fotografare con indosso la sua immagine, sapendo quanta popolarità conquisteranno tra i giovanissimi: dal musicista Carlos Santana agli attori Robert Redford, Antonio Banderas, Benicio del Toro; dai calciatori Diego Armando Maradona e Thierry Henry a giornalisti come Gianni Minà. Sono moltissimi i volti noti della musica, del cinema e della tv che, citando il “Che”, interpretandone la vita o indossandone la maglietta, hanno contribuito a trasformare un terrificante tiranno in un eroe romantico, un despota sanguinario in un mito “buonista”.

                      Maradona esibisce il tatuaggio che ritrae il "Che"                                  
Carlos Santana esibisce la T-shirt
con il "Che"
Si è mai visto qualcuno, in Occidente, scendere in piazza per denunciare i crimini di “Che” Guevara negli anni Sessanta e Settanta? Analogamente, si è mai visto qualcuno in quegli anni scendere in piazza per denunciare i crimini della rivoluzione cinese e di quella “culturale” in particolare? E, ancora, si è mai visto qualcuno, negli anni Ottanta, scendere in piazza per denunciare l’occupazione dell’Afghanistan da parte delle truppe sovietiche (occupazione che durò dal 1979 al 1988: il tempo per manifestare ci sarebbe stato…)? No, non si è mai visto nessuno. Eppure manifestazioni contro il militarismo statunitense all’epoca della guerra in Vietnam ve ne furono. E ugualmente vi sono state manifestazioni contro la Nato e contro i suoi interventi degli ultimi vent’anni, in Bosnia (1994-’95), in Afghanistan (2003), in Iraq (2004), in Libia (2011). La Nato è stata forse l’obiettivo più contestato nelle manifestazioni del Vecchio continente dell’ultimo ventennio. In genere si è trattato di manifestazioni organizzate da partiti o movimenti di sinistra, guidate da leader di sinistra più o meno radicali ma sempre accomunati dagli stessi messaggi: “pace senza se e senza ma”, libertà dai dispotismi, lotta contro l’imperialismo nordamericano.

Il dittatore siriano Bashar al-Assad

Bene. Allora come mai oggi nessuno di questi partiti, nessuno di questi leader organizza una manifestazione, uno sciopero, o semplicemente pronuncia ferme parole di condanna contro il sanguinario dittatore siriano Bashar al-Assad? Come ha illustrato il Rapporto di Amnesty International, da due anni, da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba”, il regime di Damasco ha usato, per reprimere le sollevazioni, carri armati e aviazione in zone abitate dai civili, ha arrestato e torturato migliaia di manifestanti, ha compiuto esecuzioni capitali senza neppure passare attraverso un processo e, di recente, si sospetta che abbia utilizzato armi chimiche contro i manifestanti. In due anni gli ordini di Assad hanno sterminato oltre 45.000 civili, compresi vecchi, donne e bambini. Certo, come ha spiegato alcune settimane fa Franco Venturini (cfr. il suo articolo, Massacri in Siria e (colpevole) indifferenza, Corriere della sera, 12.10.2012), la guerra civile siriana non è amata da nessuno e nelle segrete stanze della diplomazia tutti ne temono l’esito: la Russia, che per lungo tempo ha sostenuto Assad, teme che la vittoria dei ribelli possa significare un’espansione dello jihadismo nel Caucaso; gli Stati Uniti, che sono contro il regime siriano, temono anch’essi la vittoria dei qaedisti e temono che un intervento militare di Washington possa destabilizzare il Medio Oriente, come è già accaduto in passato (ad esempio in Libano); la Cina, che ha tutto l’interesse a far logorare i suoi avversari occidentali, sta alla finestra a guardare come evolvono gli eventi; la Turchia, che teme l’insurrezione del Kurdistan, non desidera di sicuro un’escalation della guerra civile né interventi esterni; l’Europa, infine, che si sforza di unificare le varie anime dei ribelli, non ha identità di vedute sulle questioni di politica estera, perciò non è in grado di programmare alcun intervento. Questi veti e timori sovrapposti sembrano essere una condanna a morte per altre migliaia di civili siriani, perché finché nessuno si deciderà ad intervenire altre persone moriranno, sterminate dall’esercito di Assad o seviziate dalla sua polizia.

Le date (fino a metà 2012) degli episodi più noti
della mattanza in corso in Siria
Ma il punto del mio intervento di oggi non è la denuncia dell’impotenza o della complicità della politica degli Stati; non è svelare quali interessi vi siano dietro le scelte compiute da ciascuno di essi, ma denunciare lo strabismo, anch’esso complice, di quelle forze politiche che sarebbero in grado di spingere e di condizionare le scelte dei propri governi ma che, pur vedendo quello che sta succedendo in Siria, non solo non si muovono, ma non si pronunciano neppure. Non si possono invocare, come scuse della loro inazione, l’ignoranza o la carenza di informazione: queste potevano forse valere per i crimini di Stalin, per quelli di Mao e per quelli del “Che” Guevara, delitti in parte ignoti, in parte ignorati nel momento in cui si stavano verificando. Oggi queste scuse, già pietose allora, non valgono più: sappiamo tutto quel che c’è da sapere a proposito degli eventi siriani, e sappiamo quali rischi sta correndo chi è sopravvissuto ai trascorsi massacri. Ripeto la domanda: allora perché in Occidente, in Europa, in Italia nessun partito o movimento di sinistra propone una serie di iniziative e di manifestazioni per fare pressioni sui propri governi, per rendere l’opinione pubblica consapevole di quanto sta accadendo?


Una risposta possibile ce la fornisce proprio “Che” Guevara. Vargas Llosa, nel volumetto che ho citato, ricorda che quando il “Che” venne acciuffato dalla CIA in Bolivia, uno degli agenti che lo interrogò dopo la cattura gli chiese cosa avesse da dire delle centinaia di esecuzioni di La Cabaña; ebbene, il “Che” rispose: “erano tutti agenti della CIA” (A. Vargas Llosa, op. cit., p. 22). Mutatis mutandis le parole del “Che” corrispondono alla giustificazione esibita, dal 1917 in poi, da tutti i dittatori sanguinari che si ispirano ad un ideale rivoluzionario “di sinistra”: essere in guerra contro i capitalisti nordamericani, presentarsi come i vendicatori dei popoli affamati dall’imperialismo statunitense. Questa etichetta, secondo quei dittatori, basta per ottenere il sostegno dalle moltitudini degli altri paesi e per far dimenticare del tutto i propri errori e i propri crimini. E Assad, com’è noto, è a capo di un governo che da decenni è in guerra con Israele e avverso agli Stati Uniti, un governo che per anni ha sostenuto politicamente e alimentato finanziariamente reti di terroristi, dagli hezbollah ai salafiti, dai talebani ai qaedisti. Come “Che” Guevara sapeva bene nel 1967, oggi anche Bashar al-Assad sa bene che per essere sostenuto da alcune forze politiche operanti in Europa è sufficiente essere antiamericani, anche se si massacrano civili inermi, anche se la propria ideologia, come ho spiegato nel post del 2 ottobre scorso, è più vicina al nazismo che al socialismo. Assad sa bene che in Europa essere antiamericani è più popolare che essere liberali; sa bene che per non pochi politici europei, e italiani soprattutto, è molto meglio essere contro la Casa Bianca che salvare migliaia di civili innocenti.

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