È cominciata l'era della "democrazia del pubblico"?
Proprio tre giorni fa
Giovanni Belardelli sul Corriere della
sera (si veda: La diffidenza per il leader, Corriere della sera,18/5/2013) ricordava il saggio del filosofo statunitense Bernard Manin
intitolato Principi del governo
rappresentativo, tradotto in italiano e pubblicato da Il Mulino nel 2010.
Un libro molto utile per comprendere i cambiamenti della politica nell’epoca della
fine delle ideologie e del trionfo dei social network. Proprio ieri,
l’insurrezione contro la giornalista Milena Gabanelli, messa in atto dai
lettori del blog di Grillo, sembra confermare la tesi di fondo di quel libro.
Manin sostiene che il crollo
delle ideologie e la rivoluzione telematica hanno decretato la fine della
democrazia rappresentativa basata sui partiti. I partiti cui si riferisce
l’autore sono quelli di massa, dotati di un’organizzazione permanente e di
un’identità ideologica ben definita e riconoscibile, organizzazioni sorte,
com’è noto, tra XIX e XX secolo, e capaci di dominare la scena politica
mondiale per tutto il Novecento. Ma lo stemperarsi delle identità ideologiche
dopo il crollo del comunismo e la diffusione della tecnologia della
comunicazione non solo hanno tolto spazio a queste organizzazioni, ma hanno
fatto emergere, se non proprio affermare, una realtà nuova: la democrazia del
pubblico. Mentre le masse organizzate nei partiti erano disciplinate e si
identificavano con una fede ideologica, il pubblico odierno è anarchico,
acefalo, privo di identità ideologica e soprattutto volubile. Alla fede si è
sostituito il desiderio; alla convinzione ideale si è sostituita
l’irrequietezza; alla rivoluzione il flash
mob. La relazione verticale tra partito e seguace è sparita, è comparsa
invece la relazione orizzontale-compulsiva, e il pubblico ora pretende di
essere protagonista, di farsi notare, di emergere dalla folla almeno per un
istante: il pubblico non accetta più di essere spettatore, ma vuole diventare
attore del dibattito politico.
In realtà i partiti non scompariranno
del tutto, secondo Manin, ma si trasformeranno in strutture leggere e
temporanee, legate ad una congiuntura particolare o ad una tendenza del momento;
ma soprattutto si riuniranno attorno ad un leader. La “personalizzazione della
relazione di rappresentanza”, così la chiama l’autore, caratterizzerà sempre di
più il rapporto tra elettori e politica e si frantumerà in tanti luoghi e in
tanti percorsi quante saranno le occasioni di formazione di una leadership
attorno ai problemi cruciali del momento.
Nell’epoca della democrazia
del pubblico si può diventare leader in un’ora, basta trovare l’espressione giusta
da collocare nel social network più seguito: i vecchi percorsi di formazione
delle classi dirigenti dei partiti non hanno più alcuna capacità di selezione
politica, né il pubblico sembra più fidarsi del “professionismo della
politica”. Naturalmente il leader può essere abbandonato da un momento
all’altro dai suoi temporanei sostenitori, non appena il vento dell’opinione in
rete cambia direzione. Perciò è divenuto importante, per chi voglia vincere una
contesa elettorale, puntare tutto sul proprio carisma, piuttosto che su un
programma realizzabile: “per i candidati è razionale presentare le proprie
qualità personali e la propria predisposizione a prendere buone decisioni
piuttosto che legarsi le mani con promesse specifiche” (B. Manin, op. cit., p. 246). Se le folle del
Novecento erano fideistiche e il loro consenso quasi inamovibile (specie in
paesi come il nostro, dove l’identità ideologica è stata sempre fondamentale nella
competizione politica), le folle del Web 2.0 sono tanto viscerali quanto
scettiche, capaci di infiammarsi per una causa modestissima, ma anche prive di
rispetto e di deferenza nei confronti di chiunque. Le folle telematiche si
muovono sull’onda dello stimolo attuale, sono compulsive, impazienti,
instabili; perciò anche insolenti e irriverenti. Nessun politico può pretendere
di godere troppo a lungo del loro appoggio.
La vicenda della giornalista
di Report, Milena Gabanelli, conferma
questa diagnosi. Poche settimane fa il pubblico della rete “grillina” l’aveva
eletta candidata al Quirinale, aveva visto in lei la vendicatrice del popolo offeso
dalla casta, l’aveva definita “una di noi”. Ora, dopo la puntata di domenica
sera di Report (dedicata alla scarsa
trasparenza contabile e finanziaria del M5S: vedi qui), per i commentatori del blog di
Grillo è divenuta la “traditrice”, l’ingrata “al servizio del Pd-Pdl” e,
naturalmente, è stata ricoperta di
insulti pesantissimi (per la vicenda si veda ad esempio repubblica.it). Come si usa fare oggi, grazie al trionfo della “nuova democrazia
del vituperio”: insultare, irridere, ingiuriare, offendere. Internet offre un
paravanto impenetrabile per i cittadini desiderosi di contribuire con le loro “pacate
riflessioni” alle decisioni politiche; ma anche per strada non è impossibile,
per un politico, imbattersi in novelli sanculotti pronti ad esprimere il loro
“pensiero”: è capitato settimane or sono a Dario Franceschini (assalito e
insultato da un gruppo di “cittadini arrabbiati” mentre cenava in un
ristorante), e tre giorni fa a Mara Carfagna (avvicinata e insultata da alcuni
individui mentre era in un supermercato).
Che il mondo stia andando
verso la direzione indicata da Manin è possibile. Vero è che non si può più
diffidare della leadership individuale, come ha giustamente osservato
Belardelli nell’articolo del Corriere
che ricordavo all’inizio. La sinistra negli ultimi vent’anni ha ritenuto che la
figura di un leader forte fosse “qualcosa di destra, di inevitabilmente
berlusconiano, e perciò da respingere” (G. Belardelli, art. cit.). In tal modo non solo rischia di perdere il consenso di
un elettorato sempre più volubile, ma corre il pericolo di frantumarsi e di scomparire.
Un buon leader invece è auspicabile: dovrebbe conquistare il favore
dell’elettorato con le doti del proprio carisma, ma attorno a lui dovrebbero
poi trovare stabilità alcune idee di fondo sulle quali erigere un programma
credibile; un buon leader dovrebbe essere capace di trasformare la tendenza
centrifuga delle folle compulsive in forza costruttiva e persistente, dovrebbe
quindi saper educare quelle folle a credere nella continuità, nella solidità,
nella durata di un progetto politico. I partiti potranno anche essere leggeri,
in un futuro prossimo che ormai è alle porte; i leader dovranno forse essere
carismatici, come Weber profetizzò già all’inizio del XX secolo; ma i governi,
se vogliono davvero governare, dovranno durare.
La persistenza e la
perseveranza non è amata dal popolo del Web 2.0, questo lo sappiamo: è una
comunità liquida, priva di ubi consistam.
Il problema grave è costituito dal fatto che alcuni hanno fatto di questa
liquidità un feticcio e l’hanno usata per fondare la propria fortuna politica,
stimolando la rabbiosa volubilità del cittadino internet-dipendente,
vellicandone la tetra volgarità, titillandone l’oscura ignoranza. Se questa è
l’aurora italiana della democrazia dei pubblici, allora dobbiamo ammettere che
ci aspettano anni difficili e perigliosi: forse sta per iniziare l’era del
cesarismo, di cui scrisse Spengler all’alba del XX secolo. Ma il visionario
filosofo tedesco scorgeva dopo essa il tramonto dell’Occidente: auguriamoci di
non imboccare davvero quella strada, perché l’esultanza delle folle compulsive
del Web ci impedirebbe di scorgere, nel tripudio generale, il baratro aperto di
fronte a noi.
Oswald Spengler (1880-1936), autore del discusso Il tramonto dell'Occidente (1918-1922) |
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