Il Grillo-padrone
Ha ragione Renzi: un partito
che aspiri a governare il Paese non può fare a meno di un leader.
Un leader, innanzitutto,
dovrebbe essere eletto democraticamente all’interno del suo partito, dovrebbe
essere riuscito ad ottenere il consenso degli iscritti sulla base delle sue
idee, del suo programma, dei suoi propositi. Di un leader siffatto si
apprezzerebbero la capacità di parlare, la verve dialettica, la sicurezza nel
mettere in difficoltà gli avversari, magari l’ironia. E, naturalmente, se ne
apprezzerebbero gli argomenti, le proposte e, ancor di più, il realismo delle
proposte. Un leader siffatto dovrebbe accettare sempre il confronto con gli
avversari e con il pubblico, se fosse forte e sicuro dei propri argomenti. Un leader
siffatto, infine, dovrebbe accettare per principio la logica della battaglia
leale: se vincesse dovrebbe riconoscere l’onore delle armi al proprio
avversario; se perdesse dovrebbe accettare la sconfitta e ammettere il valore
di chi l’ha battuto.
Tutt’altra cosa è un
padrone. Il proprietario di un movimento o di un partito non accetta di essere
eletto o deposto dai suoi iscritti, come accade per il leader di un partito
democratico. La sua creatura è frutto del suo investimento, è “roba” sua; perciò,
se egli finisse nel fango o nella tomba pretenderebbe, come il Mazzarò di
Verga, che la sua proprietà se ne andasse con lui, non accetterebbe di
lasciarla nelle mani di un estraneo. Sì, di un estraneo: perché in un simile movimento
anche gli iscritti, dal punto di vista del proprietario, sarebbero degli
estranei, mere appendici di un organismo che è tutto dipendente dal suo padrone
e dalle sue idee, naturalmente, ma anche dal suo carattere e dalle sue
inclinazioni, persino dalle sue fobie e dalle sue ossessioni. Un movimento o
partito di esclusiva proprietà di un solo soggetto non è un’organizzazione
politica democratica, ma è un’azienda. E, come accade per tutte le aziende, la
sua mission è di trovare la giusta
strategia comunicativa per imporsi all’attenzione del pubblico, al fine di
diffondere il più possibile il proprio prodotto, costituito in questo caso dalle
personali convinzioni del proprietario. Un partito-azienda non convoca congressi
per discutere con gli iscritti la propria linea politica; non seleziona il
proprio personale attraverso competizioni basate sul confronto delle idee e
degli argomenti; non si espone alle critiche dei propri avversari. Un
partito-azienda ha un programma, certo, ma deciso e imposto dalla struttura
proprietaria; ha i suoi iscritti e persino i suoi funzionari, ma scelti
attraverso criteri imposti dal padrone il quale, alla fin dei conti, non
accetterebbe mai di trovarsi tra i piedi qualcuno più forte di lui, più in
gamba di lui, più carismatico di lui: sarebbe come cedere gratuitamente la
proprietà della ditta a chi non ha investito nulla nella sua fondazione.
In Italia abbiamo due
partiti che sono sorti e si sono imposti in questo modo: Forza Italia di
Berlusconi e il Movimento 5 Stelle di Grillo. Eppure, sebbene accomunati da
molte analogie (un fondatore-padrone; la completa dipendenza dalle risorse
economiche di questo; l’impiego esplicito di potenti strumenti di comunicazione
per imporsi all’attenzione del pubblico; l’uso di un linguaggio innovativo e
dirompente, più simile a quello dello spettacolo che a quello della politica; l’assenza
di una vera classe dirigente, interamente cooptata dal proprietario; l’allergia
verso i congressi - che entrambi non hanno mai convocato; la venerazione per il
capo; la scarsa, se non del tutto assente, democrazia interna), sebbene
analoghe, dicevo, queste due organizzazioni, sorte entrambe sulle rovine di una
repubblica (Forza Italia su quelle della prima; il M5S su quelle della
seconda), sono profondamente diverse nell’azione politica. Il partito-azienda
di Berlusconi bene o male ha accettato le regole del sistema rappresentativo,
confrontandosi e persino mescolandosi con la vecchia classe dirigente; il
partito-azienda di Grillo ha invece coltivato, fin dall’inizio, il mito della
propria diversità e della propria purezza, rifiutando ogni collaborazione, ogni
alleanza, ogni confronto.
Il M5S, per ordine del suo
padrone, ha rifiutato di collaborare con il partito uscito semi-vincente dalle
elezioni di febbraio; ha rifiutato di confrontarsi de visu con i suoi avversari; ha rifiutato di dialogare con i mass
media nazionali. Ha preferito chiudersi su se stesso, ossessivamente
concentrato su poche simboliche pratiche: il controllo delle spese dei deputati
eletti; la negazione di interviste; l’espulsione dei trasgressori degli ordini padronali;
la produzione in quantità industriali del dileggio, dell’insulto, dell’ingiuria
rivolta alla persona dell’avversario, deriso per i suoi difetti fisici, per il
suo accento, persino per la sua età.
In tal modo il M5S è
precipitato in un baratro di paradossi. Un movimento nato con l’idea di portare
la voce diretta dei cittadini in un sistema corrotto e ingessato, si è rivelato
privo di democrazia proprio al suo interno; un leader che ha fatto della
consultazione referendaria telematica uno dei suoi cavalli di battaglia, ha dimostrato
di non saper accettare alcuna critica, sia che nasca dall’interno, sia che
provenga dall’esterno del movimento; un programma innovativo, fino a rasentare
l’utopia, è rimasto allo stadio di pura intenzione metafisica a causa del
rifiuto categorico di ogni collaborazione con gli altri partiti; una campagna
elettorale tutta protesa verso l’obiettivo del cambiamento, e addirittura della
rivoluzione, si è capovolta in Parlamento nel suo contrario: immobilismo,
assenza di azione e di decisione, mancanza di iniziativa.
Questi paradossi hanno
precluso al M5S la possibilità di dare il proprio contributo al cambiamento. Un’autoesclusione
che ha un’unica causa: la volontà narcisistica del leader-padrone di anteporre
la difesa della propria presunta purezza al bene della nazione. Solo così si
possono spiegare i recenti scomposti interventi di Grillo, talmente privi di
razionalità e di equilibrio da apparire quasi isterici: dalla scomunica
comminata a Milena Gabanelli agli insulti nei confronti di Pier Luigi Battista
e di Rodotà; dal non ammettere che quello presieduto da Letta è l’unico governo
possibile (dato il rifiuto dei grillini di farne parte), alle colleriche accuse
rivolte agli italiani per la recente debacle elettorale. Un comportamento che
rischia di trascinare nella rovina un movimento che pure potrebbe avere
potenzialità innovative: formato da nuovi volti, tutti estranei alla politica
degli anni passati, il M5S, se liberato dalla tirannia di Grillo, potrebbe diventare
protagonista di una politica di rinnovamento. Non è l’inesperienza dei deputati
pentastellati a costituire un ostacolo a ciò, né la loro giovane età:
esperienza e capacità si formano con il tempo, e ogni grande trasformazione della
storia ha avuto bisogno dell’energia dei giovani per essere realizzata. Il vero
ostacolo che impedisce al M5S di essere una risorsa politica per la democrazia
è il suo leader e padrone, il signor Beppe Grillo. Purtroppo costui non cederà
mai, di sua spontanea volontà, le redini del comando; c’è solo da sperare in una
ribellione da parte degli iscritti e dei deputati, oppure in una scissione del
movimento. L’ho già scritto una volta (post del 10 marzo scorso) e lo ripeto: grillini, svegliatevi! È ora
che vi ribelliate a Mazzarò, il proprietario dell’organizzazione che, finora,
ha rimediato solo una serie di brutte figure, coinvolgendo anche voi in un
pessimo spettacolo, anzi usandovi come testa d’ariete per perseguire le sue
finalità. Le quali, mi sia consentito dirlo senza apparire profeta di sventura, appaiono
di giorno in giorno sempre meno limpide e sempre più pericolose.
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