sabato 16 giugno 2012

La politica e gli italiani


LA POLITICA E GLI ITALIANI: DIFESA CORPORATIVA, AUTORITARISMO, RIBELLISMO

"Vivere per il presente è l'ossessione dominante" (Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani, 1981, p. 17). 


Francesco Guicciardini (1483-1540)
Non è facile parlare di politica in Italia. Le ragioni della difficoltà credo che siano le seguenti: da un lato la politica per molti italiani ha a che vedere con la difesa dei propri interessi corporativi, del “particulare”, per usare la nota espressione del Guicciardini; dall’altro
significa affermazione radicale e violenta di un’ideologia o di una prassi, o semplicemente di un odio, contro l’altra parte della nazione, quella ritenuta corrotta, moralmente inferiore e quindi meritevole di essere estirpata dalla società. I due atteggiamenti spesso convivono, non soltanto nella stessa epoca, ma persino nella medesima persona. Non c’è mai stato spazio, in Italia, per una discussione pacata attorno ai problemi nazionali, rispettandosi l’un l’altro, accettando come legittime e comuni le regole istituzionali, pur mantenendo diversità di vedute su come risolvere i problemi di cui si discute. Insomma, non c’è mai stato spazio in Italia per realizzare una politica autenticamente liberal-democratica.

Zygmunt Bauman
Su questa peculiarità tutta italiana, si è aggiunto negli ultimi decenni il grande mutamento antropologico della modernità (secondo alcuni, ad esempio Zygmunt Bauman, della post-modernità) che ha trasformato l’individuo semplice nell’unica fonte della morale, transitoria ed assoluta allo stesso tempo. L’ombelico di ogni soggetto è così diventato il centro dell’universo, fenomeno che ha prodotto una gigantesca deflagrazione dei sistemi morali tradizionali, fondati sul rispetto della tradizione, della religione, dell’autorità. Per l’individuo che vive nelle società occidentali (chiamo così, per comodità, il sistema di vita basato sugli alti consumi di massa, sistema che si va espandendo anche oltre i confini geografici dell’occidente), per questo individuo, dicevo, il proprio “gusto”, la propria “inclinazione edonistica”, la propria esclusiva e momentanea stravaganza hanno il diritto di diventare il fondamento della vita morale. Un fondamento, diciamo così, mobile, perché a sua volta soggetto al variare dei capricci e dei bisogni contingenti; ma, come dicevo, al tempo stesso assoluto, ovvero sciolto per principio da qualsiasi interferenza esterna all’individuo: nessuno ha il diritto, si afferma oggi con decisione, di criticare i gusti, le inclinazioni personali, le scelte degli altri. Neppure se sono causa di conflitto o di disgregazione della società. Anni fa il sociologo statunitense Christopher Lasch (1932-1994) definì questa deriva etica “cultura del narcisismo” (C. Lasch, La cultura del narcisismo, 1979, tr.it. Milano, Bompiani, 1981)
Christopher Lasch 




















Come ha spiegato benissimo Ernesto Galli della Loggia (si veda il libro-dialogo scritto da questo storico insieme ad Aldo Schiavone, Pensare l’Italia, Torino, Einaudi, 2011), questa trasformazione antropologica, che ha interessato tutto l’occidente, in Italia, combinandosi con le specifiche caratteristiche storiche e sociali del nostro paese, ha prodotto un singolare fenomeno: non solo non ha creato “un tipo nuovo di cittadino, moderno per l’appunto, consapevole, ispirato dai canoni dello spirito civico” (Pensare l’Italia, cit., p. 97), bensì ha rafforzato il “carattere anarchico-clanistico dell’individualismo italiano”. Ad esempio, le trasformazioni introdotte nei costumi degli italiani dall’ondata contestatrice degli anni Sessanta-Settanta non hanno aumentato nel nostro paese la cultura civica del diritto e della legalità, non hanno reso la società italiana più attenta al merito individuale, non hanno aumentato il senso di responsabilità del singolo quando agisce nella sfera pubblica (del lavoro, della politica, dell’economia, della comunicazione): tutti effetti della modernità che si sono manifestati in molte altre società attraversate da quell’ondata. Da noi quelle trasformazioni sono state per lo più declinate nel senso di una “fruizione individuale dei suoi risultati”: difesa del proprio diritto a fare “come mi pare” in qualsiasi ambito; contestazione distruttiva di ogni autorità; rifiuto ad affrontare ogni questione di principio, giudicata sempre come fastidioso moralismo; difesa ad oltranza dei propri costumi e delle proprie impulsive volontà. “Da noi il principio di autorità in genere è uscito culturalmente delegittimato in una maniera e in una misura altrove sconosciute” (op. cit., p. 97). Perciò le trasformazioni di cui si sta parlando hanno generato in Italia un pronunciato edonismo: un “edonismo di massa” (così lo chiamò nel 1973 Pier Paolo Pasolini) maggiore che altrove, che ha finito per rafforzare la dimensione familistica, corporativa, “clanico-tribale” del nostro individualismo. 
1973, campagna pubblicitaria dei jeans Jesus: Pasolini si chiese se questo genere di messaggi non fosse il segno di una mutazione antropologica avvenuta tra gli italiani, il segno del passaggio dai valori tradizionali all’edonismo di massa. Vedi http://www.damianopalano.com/2012/03/il-trionfo-delledonismo-di-massa-per.html




Galli della Loggia (foto a fianco) definisce questo carattere della storia nazionale come “scompaginante e destabilizzante, non componibile in alcun nuovo ordine ma alla fine solo corrosivo di ogni possibile ordine” (ibidem). Egli ritiene che esso sia stato presente fin dagli inizi della nostra storia unitaria: “Tutta la prima fase dello Stato unitario è stata caratterizzata sì da una certa chiusura autoritaria delle classi dirigenti a cui corrispondeva però la presenza di un fattore determinante: cioè il ribellismo a sfondo anarcoide delle masse italiane” (op. cit., p. 20). Masse che erano per lo più contadine o bracciantili, la cui mobilitazione politica ha avuto caratteri improntati “in genere a una forte carica di violenza, facile a innescarsi e altrettanto rapidamente a esaurirsi” (op. cit., p. 21). La formazione delle organizzazioni di massa, sia quelle politiche sia quelle sindacali, ha ereditato questo ribellismo e lo ha utilizzato contro le istituzioni nazionali, ritenute a loro volta insufficienti poiché colpevoli di aver tradito lo “spirito più autentico del Risorgimento”, quello popolare. Quest’ultimo tema, la presunta incapacità del Risorgimento ad inserire le masse italiane nella politica e nelle istituzione nazionali, nel tempo è diventato un autentico mito comune a molte culture politiche italiane: nazionalisti, fascisti, socialisti, cattolici, comunisti, azionisti sono stati animati, secondo Galli della Loggia, da un medesimo “afflato populistico-rivoluzionario, originato dalla volontà comune a tutte le nostre culture politiche […] di sanare le insufficienze del Risorgimento, portando finalmente ‘le masse nello Stato’” (op. cit., pp. 31-32). Un afflato, conclude l’autore, che “ha rappresentato il vero surrogato di quel pensiero democratico moderno che in Italia non c’è mai stato in misura significativa” (op. cit., p. 32).

Secondo il filosofo della politica Dolf Sternberger (1907-1989, foto a fianco), nella storia dell’occidente vi sarebbero tre concezioni della politica: la politica autoritaria che ha come scopo la soppressione dei conflitti; la politica escatologica che ha come fine la redenzione dai conflitti; la politica liberale che ha come scopo la regolamentazione dai conflitti (D. Sternberger, Le tre radici della politica, tr. it. Bologna, Il Mulino, 2001). Se si accetta questa tripartizione, si deve concludere che nella storia dell’Italia unita vi è stato sempre poco spazio per la terza “radice”. Il discorso politico in Italia si è limitato spesso allo scontro tra le altre due posizioni: l’autoritarismo e il ribellismo. Stretto tra i due versanti della permanente guerra civile politica, il cittadino italiano ha così sviluppato un’istintiva tendenza a cercare la sopravvivenza, a preferire soluzioni di corto respiro capaci di risolvere i problemi immediati, in grado di soddisfare i bisogni momentanei. Perciò ha spesso dato il proprio consenso a quelle forze politiche che corrispondessero a queste esigenze, capaci cioè di elargire favori, pensioni, sussidi, lavoro, denaro. Ma nei momenti bui della nostra storia, quando quelle forze politiche non sono più riuscite a soddisfare l’esigenza primaria della sopravvivenza hic et nunc, gli italiani, spaventati dal fantasma della miseria (il cui ricordo non è poi così lontano nella storia del nostro paese), hanno finito per diventare facile preda dei leader autoritari o di quelli populisti, talvolta identificabili nella stessa persona.

Quello che stiamo vivendo è un altro momento buio della nostra vicenda nazionale. Dopo aver creato un debito pubblico alto e inespugnabile come una montagna dell’Himalaya; dopo aver sprecato il tempo nella difesa anacronistica dei nostri privilegi, anziché metter mano alle inevitabili riforme delle istituzioni, del mercato del lavoro, della pubblica amministrazione, degli ordini professionali, della liberalizzazione del commercio, come altri paesi hanno provveduto a fare da anni; dopo aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità per molti decenni, ci troviamo di nuovo di fronte al bivio autoritarismo-ribellismo? Cosa sceglieremo questa volta? Anzi: cosa stiamo già scegliendo?









3 commenti:

  1. Hai ragione, Carlo, ci troviamo davvero di fronte a questo bivio che tu indichi, tra autoritarismo e ribellismo. E putroppo la classe dirigente e politica non mi sembra affatto all'altezza di guidarci verso la terza via... Non c'è da stare allegri...
    Giovanna

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    1. Ciao Giò! Sì, è come dici tu. Temo che nella storia della repubblica le classi politiche abbiano saputo fare solo una cosa molto bene: distribuire soldi. Da quando è diventato difficile farlo, contro di esse si è sollevata la ribellione della cosiddetta società civile. Sulla questione, comunque, interverrò di nuovo. Ciao!
      Carlo

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  2. Ma la ribellione è sempre solamente violenta o può essere anche propositiva ad un’idea?

    Come tutti i grandi temi anche quello della politica riguarda ognuno di noi e il futuro della specie umana. Perché allora il discorso non si estende dagli “esperti”anche alle aule scolastiche, con il proposito di stimolare gli alunni al diritto-dovere di ampliare le proprie forze cognitive, ma ancor più quelle morali, per orientare i propri pensieri e le proprie azioni ad un orizzonte che guardi oltre le proprie necessità immediate? Perché la parola “politica” a scuola è ancora per molti quasi un tabù? Forse perché gli insegnanti sono condizionati da scelte corporative, da visioni autoritarie o populistiche, non solo tra Istituti e materie diverse, ma anche all’interno di una stessa classe o materia di concorso?

    Dopo questa premessa, carissimo Carlo, vorrei dirti che credo anch’ io nella “discussione pacata” dei punti di vista, di tutti i punti di vista, ma penso anche che ciò non possa accadere senza considerare attentamente i diversi punti di partenza.
    Gli insegnanti che fanno copiare i propri studenti agli esami di Stato (o durante l’anno..) non lo fanno solamente per “brillare di luce riflessa”, ma per difendere se stessi e a volte il loro posto di lavoro (..non li giustifico); facilitare la “copiatura” può significare avere i numeri per fare una nuova classe o per sollecitare nuove iscrizioni; “chiudere gli occhi” può servire a camuffare il proprio disimpegno e la propria scarsa professionalità, la paura di contrariare gli alunni e i genitori o semplicemente evitare nuove-impegnative iniziative.
    Gli insegnanti o dirigenti (oggi si chiamano così!!) che preferiscono simili “soluzioni di corto respiro capaci di risolvere i problemi immediati, in grado di soddisfare i bisogni momentanei”, gli insegnanti/dirigenti che seguono la loro “inclinazione edonistica”, sollecitando la“cultura del narcisismo” nei loro stessi alunni..sono gli abili mistificatori, quelli che sembrano “buoni-bravi-flessibili-dispinibili..” (APPARIRE)
    I docenti che vivono invece con la “coscienza pulita”, che credono nel diritto-dovere all’istruzione-educazione (permanente), che contrastano le raccomandazioni e i falsi improvvisi miracoli senza temere il confronto e l’insuccesso degli alunni, sono quelli che sembrano “troppo severi “, “autoritari”, “moralisti”, “passionali” , “don Chisciotte”.. (ESSERE).

    Mi ripeterò: non sempre le cose sono, fortunatamente, come sembrano e non sempre, soprattutto, i peggiori sono i più numerosi. Gli insegnanti, che preferiscono ”essere” piuttosto che ”apparire” credo che siano solamente meno visibili ma in maggioranza. Questi docenti sono quelli che forse accettano, con maggiore consapevolezza, il fatto che nel mondo non esistono solo le “eccellenze” e che dalle “Querce non nascono le melarance”; sono quelli che credono che lo scopo della loro professionalità non significhi ottenere semplicemente un risultato, ma accompagnare gli alunni in un tratto del percorso della vita.
    La gioia, infatti, procurata da un piccolo passo, fatto dai “meno bravi” (scolasticamente parlando), non è certamente inferiore a quella a noi concessa da coloro che avanzano sin dall’inizio a grandi passi. Importante è cercare sempre di preparare i giovani ad affrontare in modo costruttivo anche gli insuccessi, perché capire che un compito o una interrogazione possono non andar bene significa : “ho già, in parte, rimediato”.
    Nella vita non tutte le prove hanno l’esito sperato, ma chi ha “perle da utilizzare” e non “sassi”, chi ha la consapevolezza di sé e dell’altro, forse sarà un ribelle non violento.
    (Ross Stefa)

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