63 anni fa “la
guerra dimenticata” tra le due Coree.
Prima parte: l’inizio del conflitto
25 giugno 1950, ore 4,00 del
mattino, penisola di Corea, lungo il 38° parallelo: una piovosa domenica di
inizio estate, umida come solo può esserlo in una regione monsonica. Dieci
divisioni di fanteria nordcoreane ed una corazzata, munita di carri armati T-34
di fabbricazione sovietica, superano il confine e dilagano nella Corea del Sud.
L’esercito nordcoreano, ben addestrato, forte di 350.000 sodati e in stato di
allerta dal febbraio di quell’anno, non incontrerà quasi resistenza: le deboli
forze sudcoreane (meno di 100.000 effettivi male armati e soprattutto male
addestrati) vennero travolte in poco più di due giorni. Seul, la capitale della
Corea del Sud, cadde il 28 giugno.
Al termine della seconda
guerra mondiale la Corea era risultata divisa in due, lungo il 38° parallelo.
Infatti la penisola, annessa al Giappone già da prima del conflitto mondiale,
nell’estate del 1945 era stata invasa da due eserciti: da sud dall’esercito
americano che stava combattendo dal 1941 contro il Giappone nel Pacifico e
nell’Estremo Oriente; da nord dall’Armata Rossa sovietica che era entrata in
guerra contro il Sol Levante solo da pochi giorni, dopo che gli americani
avevano sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Fino a quel
momento, infatti, l’Urss aveva rispettato il patto di non aggressione e
neutralità sottoscritto con il Giappone nell’aprile del 1941. Il patto aveva
validità quinquennale, ma l’8 agosto del ’45, due giorni dopo la bomba su
Hiroshima, Stalin infranse unilateralmente l’accordo e si decise ad attaccare i
giapponesi laddove essi erano più vulnerabili, ovvero nei territori asiatici
annessi dal Giappone durante il conflitto. Perciò in tre settimane l’Armata
rossa occupò la Manciuria, parte dell’isola di Sachalin, le isole Curili e,
appunto, la Corea. La violazione del patto era stata prevista a Yalta (febbraio
1945), ma avrebbe dovuto produrre l’invasione sovietica del Giappone entro tre
mesi dalla fine delle ostilità in Europa: invasione che Stalin non prese mai in
considerazione, lasciando fino alla fine agli americani l’intero onere del duro
confronto con il Giappone.
L’occupazione della Corea da
parte sovietica si fermò dunque intorno al 38° parallelo, dove i soldati russi
e quelli americani si incontrarono a metà agosto. Quando il Giappone finalmente
si arrese (settembre 1945) la divisione delle due Coree era ancora provvisoria:
le potenze vincitrici erano d’accordo che sarebbe durata fino all’insediamento
di un governo nazionale. Ma nel frattempo, purtroppo, era scoppiata la guerra
fredda che congelò la situazione coreana fino a farla diventare definitiva. Nel
1947 l’Onu fissò per l’anno successivo le date per lo svolgimento delle
elezioni in Corea, ma Urss e Stati Uniti si radicalizzarono nella reciproca
inimicizia proprio nel corso del ’47: l’Urss, perciò, impedì ai funzionari
delle Nazioni Unite di entrare nella Corea del Nord per controllare il regolare
svolgimento delle elezioni; gli Stati Uniti posero la Corea del Sud sotto
amministrazione militare (retta dal generale John Hodge) fino alla
proclamazione ufficiale del governo sudcoreano, avvenuta dopo le votazioni del
luglio 1948 che proclamarono presidente Syngman Rhee. Il 15 agosto 1948,
sicché, nasceva ufficialmente la Repubblica di Corea (del Sud, con capitale
Seul); in risposta a ciò, il 9 settembre l’Urss impose Kim Il-Sung come Primo
Ministro della Repubblica Democratica Popolare di Corea (del Nord, con capitale
Pyongyang). La divisione era così ratificata de facto, anche se de iure
né le Nazioni Unite, né i due governi coreani la riconobbero. Anche Urss e Usa
non la riconobbero, ma la accettarono come inevitabile conseguenza di quel che
stava accadendo in Europa. Con la differenza che gli Stati Uniti, impegnati nel
Vecchio Mondo a seguire la dottrina Truman del containment, abbandonarono Seul quasi del tutto, completando
l’evacuazione della Corea del Sud entro il giugno del 1949; i sovietici,
invece, continuarono a restare nella Corea del Nord come “consiglieri” e, a
partire dal 1949, affidarono a Mao Tse-tung, al potere in Cina dall’ottobre di
quell’anno, il compito di armarla e di sostenerla nell’impresa di conquistare
la parte meridionale.
Com’è ormai noto, la guerra
di Corea scoppiata nel 1950 era stata meticolosamente preparata dai nordcoreani
grazie alle risorse messe loro a disposizione dall’Urss e dalla Cina. I due
colossi comunisti erano allora ancora amici (proprio nel dicembre 1949, un
viaggio di Mao a Mosca aveva prodotto la firma di un accordo di collaborazione
politico-militare tra Russia e Cina), e la loro cooperazione nella vicenda
coreana, in realtà più apparente che reale, rivelò al mondo che la guerra fredda
era arrivata anche in Estremo Oriente, che il mondo comunista si stava
espandendo velocemente, non solo in Europa orientale ma anche in Asia. Gli Stati
Uniti, impegnati nella ricostruzione europea, erano del tutto impreparati a
questa evento: non solo non avevano previsto la vittoria del comunismo in Cina,
ma ora, nel giugno del 1950, si accorsero di avere sottovalutato anche la
questione della Corea. Continuarono a non rendersi conto di quanto stava
accadendo per diversi giorni dopo l’aggressione nordcoreana: le due divisioni
statunitensi (la 24 ͣ e la 25 ͣ), inviate per dare man forte ai sudcoreani, si
rivelarono del tutto inadeguate: costituite per lo più da reclute, sostenute da
un’insufficiente copertura aerea e del tutto prive di protezione navale,
cercarono di rallentare l’avanzata dei T-34 con i bazooka, i quali non
servivano a nulla contro la corazza dei carri sovietici. Americani e
sudcoreani, soverchiati di numero, isolati e terrorizzati, si arresero oppure
fuggirono di fronte all’impetuosa avanzata nemica. I corrispondenti dei
giornali, come ricordò anni fa Galli della Loggia ne Il mondo contemporaneo (Il Mulino, Bologna 1982, p. 170),
“parlavano senza mezzi termini di una ‘Dunquerque americana’”. A luglio le
residue forze sudcoreane e americane erano chiuse nel perimetro di Pusan,
nell’estremità meridionale della Corea del Sud.
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Il Gen. Douglas Mac Arthur (1880-1964) |
Fu a questo punto che gli
Stati Uniti si svegliarono. Il generale Douglas Mac Arthur, che nella seconda
guerra mondiale aveva guidato le forze aeronavali americane fino alla
liberazione delle isole del Pacifico, e che ora era stato nominato dall’Onu
comandante della forza militare delle Nazioni Unite con il compito di
respingere l’attacco nordcoreano, prese in mano la situazione e cambiò
strategia. Adottando le stesse iniziative che qualche anno prima gli avevano
consentito di sconfiggere i giapponesi, il 13 settembre del 1950 concentrò le
forze davanti ad Incheon (261 navi, tra cui 4 portaerei) e bombardò per 24 ore
le retrovie nordcoreane, consentendo lo sbarco alla 1ͣ divisione marines (formata
questa volta dai veterani di Guadalcanal e Okinawa). Nello stesso momento le truppe
statunitensi rimaste a Pusan, e debitamente rafforzate dal mare, ruppero
l’assedio e contrattaccarono, puntando verso nord: in 4 giorni 50.000
nordcoreani rimasero intrappolati in un’enorme sacca e abbandonati dal grosso
del loro esercito che si affrettò a ripassare il 38° parallelo, inseguito dai
soldati di Mac Arthur. L’audace operazione americana aveva tagliato in due le
forze nemiche, costringendole a ritirarsi; in pochi giorni la situazione si era
completamente rovesciata, la guerra sembrava ormai vinta. Non solo, infatti,
l’aggressione nordcoreana era stata respinta e la Corea del Sud liberata, ma le
forze delle Nazioni Unite (che, non dimentichiamolo, erano costituite da
reparti di ben 15 paesi, non soltanto da americani) si gettarono
all’inseguimento dei nordcoreani ed entrarono nella Corea del Nord, occuparono
Pyongyang il 19 ottobre 1950 e giunsero il 27 al confine con la Cina, lungo il
fiume Yalu, oltre il quale le residue forze di Kim Il-Sung si rifugiarono. La
Corea era stata riunificata, o così almeno sembrò agli occidentali.
Ma le cose erano sul punto
di cambiare nuovamente, e di riservare all'opinione pubblica mondiale un altro
colpo di scena. I cinesi, preoccupati del tracollo nordcoreano e soprattutto di
avere gli americani a due passi dal confine, fecero affluire lungo lo Yalu massicci
contingenti di truppe che oltrepassarono il fiume la notte del 27 ottobre. Commenta
ancora Galli della Loggia: “In questo modo gli americani si trovarono per la
prima volta davanti ad un problema che negli anni successivi si sarebbe
ripresentato regolarmene in occasione dei conflitti cosiddetti limitati tra potenze
europee ed eserciti, di guerriglia e non, in varie parti del mondo: il problema
dei ‘santuari’, secondo l’espressione coniata allora dallo stesso Mac Arthur,
vale a dire di un paese confinante, formalmente estraneo alle operazioni
militari, che però ne rappresenta il serbatoio di alimentazione essenziale” (op. cit., p. 171). Fu per queste ragioni
che Mac Arthur chiese a Washington e alle Nazioni Unite di poter bombardare i
ponti sullo Yalu, nonché il “diritto d’inseguimento” del nemico per tre minuti
di volo entro il confine cinese: il primo permesso venne accordato (fino a metà
fiume!), il secondo venne categoricamente respinto da Truman e dagli alleati.
Mac Arthur, se non voleva abbandonare la posizione raggiunta, a questo punto
aveva solo due possibilità: o tenere il fronte resistendo alle ondate di cinesi
che si sarebbero abbattute sulle sue postazioni (si stavano ammassando oltre
800.000 sodati cinesi oltre il confine) oppure continuare ad avanzare nella
speranza di dissuadere o addirittura respingere l’avanzata delle truppe di Mao.
Il 24 novembre decise per questa seconda opzione e fu una rovina. (1-continua)
![]() |
Mac Arthur al comando dello sbarco di Incheon |
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