venerdì 19 aprile 2013

Chi ha paura della Corea? Conclusione.


La “guerra dimenticata” tra le due Coree.
Seconda parte: gli esiti del conflitto. I rischi odierni.
 
Bombardamento americano dei ponti sullo Yalu, nel 1950
Lin Piao (1907-1971)


Douglas Mac Arthur decise di avanzare ancora, verso il territorio cinese, il 24 novembre 1950; 48 ore più tardi i cinesi, al comando di Lin Piao (uno dei prestigiosi comandanti della “lunga marcia” del 1934-35), forti di 300.000 uomini, spianarono le postazioni tenute dai marines e, a costo di pesantissime perdite, avanzarono come un rullo compressore, aprendo un varco tra il X Corpo dei marines e l’VIII Armata: gli americani dovettero arretrare, e solo grazie alla cortina di fuoco delle navi al largo e alla copertura area riuscirono faticosamente ad attestarsi di nuovo sul 38° parallelo, tenendolo a stento.
 
L'offensiva cinese è rappresentata dalla linea rossa tratteggiata
Per tutto il mese di dicembre 1950, le navi, gli aerei e gli elicotteri americani continuarono ad evacuare personale militare e civili mettendoli in salvo, mentre la Cina continuava a far affluire truppe attraverso la Corea del Nord per inseguirli. Il 4 gennaio 1951 gli inarrestabili cinesi, sebbene esausti e decimati, occuparono Seul e la tennero fino a marzo. Le forze delle Nazioni Unite (dall’aprile 1951 al comando del generale Matthew Ridgway: Truman sostituì Mac Arthur perché considerato troppo impulsivo e temerario), riorganizzatesi, scatenarono la controffensiva tra gennaio ed aprile del 1951, riuscendo a riprendere la capitale sudcoreana e a difendere, questa volta stabilmente, il 38° parallelo. Gli opposti schieramenti si fronteggiarono per altri due anni in una logorante guerra di posizione, finché, constata l’impossibilità per ambo le parti di avere ragione dell’avversario e di riunificare le due Coree, si giunse all’armistizio, firmato il 27 luglio 1953 a Panmunjeon.
 
Soldati Usa riconquistano Seul
Taejon (Corea del Sud) rasa al suolo dai combattimenti

L’armistizio pose fine alle ostilità, ma non risolse la questione della divisione delle Coree. La successiva Conferenza di Ginevra (aprile-giugno 1954) fallì il tentativo di riconciliare il Nord e il Sud; Cina e Stati Uniti non si impegnarono per cercare una soluzione, mostrando di essere soddisfatti del risultato conseguito. Perciò, sebbene non ratificata da un vero e proprio trattato di pace, la Corea rimase ancora una volta disunita de facto. Seul e Pyongyang non riconobbero la divisione e accettarono solo per causa di forza maggiore le condizioni imposte dall’armistizio. La guerra, insomma, quanto al destino dei coreani, non aveva cambiato nulla, malgrado gli oltre due milioni di morti, gran parte dei quali costituiti da civili.
 
Bombe al napalm usate dall'aviazione Usa presso Hanchon
(Corea del Nord), maggio 1951
La USS Forrestal, in servizio dal 1955

Riguardo allo sviluppo della guerra fredda, invece, la vicenda coreana ebbe importanti conseguenze. Gli Stati Uniti capirono che l’Asia andava presidiata (mantennero nella Corea del Sud 40.000 uomini, arsenali nucleari e soprattutto aerei e navi), capirono che la supremazia marittima nel Pacifico era di vitale importanza nella sfida planetaria con il comunismo (oltre all’espansione comunista in Europa orientale, oltre al successo della rivoluzione in Cina, stavano divampando guerriglie comuniste nelle Filippine, in Malesia, in Indocina e nella Birmania; Taiwan, intanto, era diventata una sorta di Berlino dell’Estremo Oriente). Così, Washington avviò un massiccio programma di costruzione di grandi unità navali, tra cui spiccavano le portaerei della classe Forrestal (60.000 tonnellate di stazza, autonomia di quasi 10.000 miglia, 20 nodi di velocità, capacità di imbarco di 90 velivoli, con rapidità di decollo attorno agli 8 aerei al minuto, compresi i bombardieri atomici). Sulla base di questa revisione strategica, com’è noto, gli Usa passarono dalla dottrina di politica estera basata sul containment a quella del roll-back, dal contenimento al contrattacco.
 
Carri armati statunitensi usano i lanciafiamme presso
il fiume Han (Corea del Sud), marzo 1951
Cambiamenti ve ne furono anche sul fronte opposto, anche se allora non ne trapelò notizia. Si è saputo solo nel corso degli anni Novanta che la vicenda coreana corruppe definitivamente i rapporti tra Stalin e Mao, già non molto distesi dal 1949, malgrado le apparenze. Il leader cinese, fin dal suo avvento al potere, non aveva voluto riconoscere alla Russia il ruolo di Stato guida nella rivoluzione comunista mondiale, e la questione della Corea finì per radicalizzare le reciproche diffidenze. Stalin, infatti, non avrebbe voluto impegnarsi nel conflitto, perché lo riteneva controproducente, pericoloso e, come sembra aver detto personalmente a Kim-Il Sung, “un’operazione del tutto fallimentare”. Dei telegrammi intercorsi tra Mao, Stalin e il leader coreano si è avuta notizia solo a partire dal 1992, in Italia ne diede notizia il Corriere della sera (vedi: Seth Faison, Guerra di Corea. I segreti di Mao, in Corriere della sera, 27 febbraio 1992, p. 8). Perciò oggi sappiamo con maggior precisione quel che allora alcuni osservatori sospettavano, senza averne le prove (e per questo non vennero ascoltati dalla Casa Bianca): ovvero che la decisione di attaccare la Corea del Sud venne presa da Mao in accordo con Kim Il-Sung perché il leader cinese, da poco al potere, era preoccupato che la vicinanza americana in Asia avrebbe finito non solo per sostenere gli avversari del regime comunista ma anche per rovesciarne il governo a Pechino. Fu un calcolo sbagliato, come abbiamo visto, sia perché gli Stati Uniti non disponevano della forza necessaria per contrastare il comunismo in Asia, ed erano anzi del tutto impreparati a questa eventualità, sia perché lo stesso Mac Arthur aveva giudicato le forze cinesi troppo stanche, a causa della recente rivoluzione, per tentare un’impresa pericolosa come l’apertura di un conflitto in Corea. Un calcolo sbagliato che costò centinaia di migliaia di vittime e che finì per ottenere il risultato opposto a quello sperato da Mao: questi intendeva debellare la presenza capitalista e occidentale in Asia per spianare la strada alla rivoluzione; la guerra di Corea e il suo esito rafforzarono invece la presenza nordamericana in tutta la regione, Pacifico compreso.
 
Civili sudcoreani trucidati dall'esercito della Corea del Nord
in ritirata (Kum Bong San, ottobre 1950)

Kim Jong-il, leader della
Corea del Nord dal 1994 al 2011
Oggi il rischio di una nuova guerra in Corea si sta ripresentando. Da anni il regime comunista nordcoreano (guidato dal 1994 da Kim Jong-il, figlio di Kim Il-Sung), fa la voce grossa contro la Corea del Sud e contro gli Stati Uniti; dal 2006 (anno del primo test nucleare nordcoreano), sappiamo che quel paese possiede la bomba atomica ed ha avviato un programma di armamento nucleare del proprio esercito; da anni sappiamo che Pyongyang si fa beffe degli accordi internazionali sul disarmo atomico (ne ha sottoscritto uno nel 2007, ma poi ha effettuato altri due esperimenti nucleari, nel 2009 e quest’anno, a febbraio); da anni sappiamo che il regime della Corea del Nord ha affamato la propria popolazione, sottomettendola in modo brutale, per far fronte alle spese che questi armamenti comportano; sappiamo, infine, che dal 2009 si è unilateralmente ritirata dall’armistizio del 1953, affermando così la propria intenzione di voler riaprire le ostilità. Dal 17 dicembre 2011, quando morì Kim Jong-il, la guida del paese è nelle mani di Kim Jong-un (figlio del leader precedente: la Corea del Nord è un regime comunista dinastico), il quale sente la necessità di dar forza e visibilità ad un potere che sta traballando: le denunce internazionali contro il regime, l’irritazione di Pechino verso la politica nucleare nordcoreana, la stanchezza della popolazione sembrano corrodere sempre di più la forza del dittatore che oggi più che mai appare isolato. Ma tale situazione non deve suggerire ottimistiche conclusioni, dal momento che un colpo di coda del regime, proprio perché disperatamente alla ricerca di consenso, potrebbe sempre verificarsi.
 
Il sito dell'esperimento nucleare sotterraneo nordcoreano
del febbraio 2013: l'immagine satellitare è  stata resa
pubblica da Google Earth

Kim Jong-un, l'attuale
dittatore della Corea del Nord
Il 4 aprile scorso, infatti, Kim Jong-un ha dichiarato che la Corea del Nord è in “stato di guerra” con il Sud. L’allarme si è subito diffuso in tutte le regioni dell’Estremo Oriente: persino il Giappone, solitamente molto defilato e silenzioso sulle questioni di politica estera, dopo essere stato esplicitamente minacciato da Pyongyang, ha dovuto schierare i missili Patriot per difendersi da eventuali aggressioni. Il Presidente Obama, a sua volta, ha affermato di essere pronto a reagire se verrà attaccato un suo alleato in Asia. Insomma, la situazione è potenzialmente esplosiva. Tanto più che il 15 aprile sono cominciati i festeggiamenti per il 101° anniversario della nascita di Kim Il-Sung, immortalato dalla costituzione nordcoreana come “Presidente Eterno”: occasione, quella delle celebrazioni, per esibire muscoli da parte di un leader non ancora osannato dal popolo come lo è stato il nonno. Quali misure adottare per scongiurare il rischio che la situazione sfugga di mano? I colloqui aperti sabato 13 aprile tra la Cina e gli Stati Uniti sembrano lasciare ancora un margine di speranza, poiché Pechino e Washington, stando a quanto si sa finora, vorrebbero la stessa cosa: evitare il conflitto, denuclearizzare la Corea del Nord (vedi Corriere della sera online del 13 aprile 2013).
 
Le due Coree oggi
Ma la storia della guerra del 1950 ci insegna che una previsione azzardata, un calcolo sbagliato possono far precipitare gli eventi verso lo scontro armato. Sebbene isolato, il regime di Pyongyang non deve essere sottovalutato. Le democrazie liberali occidentali, che si appoggiano sulla propria opinione pubblica per decidere come comportarsi quando ne va della vita e sicurezza dei propri cittadini, hanno un problema in più da affrontare rispetto alle dittature: sanno che i cittadini si opporrebbero al coinvolgimento del proprio paese in una guerra. Perciò devono cercare a tutti i costi il dialogo, anche se dall’altra parte vi è un dittatore autocrate che non solo non ama conversare, ma che di solito straccia gli accordi appena sottoscritti. La storia si ripete sempre quando democrazie e dittature si confrontano sul piano della forza: le democrazie sono più esposte e corrono molti più rischi. Per questa ragione, quando si verificano simili situazioni (come negli ultimi 20 anni è accaduto nei confronti di Milosevic, di Saddam Hussein, dei Talebani afghani, della Siria), ovvero quando un regime tirannico antioccidentale sfida apertamente gli Stati Uniti anche a costo di provocare un conflitto, è con dolore che ogni sincero amante della pace apprende che non vi è traccia di proteste, in occidente, da parte dei movimenti pacifisti. Per i quali, evidentemente, la minaccia di guerra va combattuta solo se è Washington a ventilarla, mentre se si tratta di uno Stato totalitario si tace, e si aspetta che a commettere il passo falso siano i maledetti yankees.

Il conflitto coreano del 1950-’53 è diventato nel tempo una “guerra dimenticata”, una delle tante, una di quelle che nessuno ama ricordare. Schiacciata tra gli eventi della seconda guerra mondiale e quelli della guerra del Vietnam (più ricordata, quest’ultima, perché più facilmente utilizzabile in chiave ideologica), la guerra di Corea è rimasta per decenni sconosciuta agli stessi sudcoreani. Ricerche e sondaggi condotti negli ultimi anni in Corea del Sud hanno rivelato che molti giovani non solo non conoscono l’esistenza di questa guerra, ma, se ne sanno qualcosa, ne attribuiscono la responsabilità dello scoppio al Sud e agli Stati Uniti (cfr. ad esempio Pino Cazzaniga, “Dimenticata” ma non finita la guerra fra Nord e Sud Corea, in Asianews.it, 27/6/2009). La potenza della macchina propagandistica nordcoreana, cinese e, in parte, anche vietnamita, ha saputo penetrare in profondità nella società sudcoreana, plasmandone memorie e coscienze.
 
Fosse comuni di civili sudcoreani trucidati dall'esercito
della Corea del Nord mentre si ritirava (Taejon, settembre 1950)

George Santayana (1863-1952)
Gli Stati Uniti non hanno mai amato ricordare quella guerra, perché è stata la prima che non sono riusciti a vincere; l’Urss e la Cina perché le loro responsabilità erano troppo grandi e troppo gravi per giustificare gli eventi cruenti che ne scaturirono (non mi soffermo sulle fosse comuni trovate al termine della guerra nella Corea del Sud: piene di militari e di civili, segni del passaggio dell’esercito di Kim Il-Sung). In Europa l’intellighenzia marxista, dominante nelle Università e nel mondo editoriale per almeno due-tre decenni, glissò spesso sulla questione, preferendo ad essa la guerra del Vietnam, vicenda che sembrava adattarsi meglio al credo manicheo delle sinistre occidentali. Così, poiché della guerra coreana si è quasi persa la memoria, oggi, di fronte ai rischi che quella regione sta di nuovo correndo, di fronte ai rischi che forse tutto il mondo sta di nuovo correndo, diventa inevitabile ricordare il discusso monito di George Santayana (1863-1952): “coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”. Le parole del filosofo ispano-americano, scritte all’inizio del Novecento, suonerebbero profetiche, se dovessimo tornare a contare i morti, come accadde nei lontani anni Cinquanta, in quelle sperdute e piovose lande monsoniche da tutti dimenticate.
(p.s.: Gran parte delle belle e drammatiche immagini utilizzate in questo post sono pubblicate dal sito boston.com/bigpicture, il quale, nel 2010, ha dedicato uno spazio intero alla guerra del 1950-'53, in occasione del sessantesimo anniversario del conflitto: spazio intitolato, significativamente, Remembering the Korean War, 60 years ago. Nel sito sono rinvenibili altre straordinarie fotografie. Voglio ringrazio gli autori del sito per aver messo a disposizione di tutti questo eccezionale materiale.)

Il Memorial di New York in onore dei caduti della
"guerra dimenticata"


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