Seconda parte:
Estinzione dell’esecutivo e tirannia. Opposizione-collaborazione tra democrazia
e liberalismo
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Il filosofo Roberto Esposito |
Scrive Roberto Esposito (tra
i più importanti filosofi italiani della politica) che “l’Uno – il Bene, la Giustizia –
non è traducibile in politica” (R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, (n.e.) Il Mulino, Bologna 2011, pp.
31-32). E ciò perché la politica è conflitto, molteplicità, divenire:
impossibile ridurre ad uno ciò che per definizione è doppio e triplo, ciò che è
fluido e inafferrabile. La possibilità di neutralizzare il conflitto, annullando
le differenze, è atteggiamento “impolitico”; la politica, invece, è
“irriducibilmente discorde” (p. 39).
Questa discordia
“irrappresentabile”, afferma Esposito, è tanto più evidente nella democrazia.
In Rousseau il valore della democrazia è la comunità, intesa come corpo
organico e unitario, privo di differenziazioni. Il sistema democratico così
inteso è talmente tanto difficile da rinvenire nella storia, che lo stesso
Rousseau lo definisce al tempo stesso necessario e impossibile. Scrive infatti
nel Contratto sociale: “a prendere la
parola a rigore, una vera democrazia non è mai esistita né esisterà mai” (J. J.
Rousseau, Il contratto sociale, in
Id. Opere, a cura di P. Rossi,
Sansoni, Firenze 1972, p. 309, citato da Esposito, op. cit., p. 59). Perché la democrazia immaginata dal filosofo
ginevrino sarebbe così difficile da realizzare? Perché, spiega Esposito, essa
consiste in “quel regime in cui tutti i cittadini, o almeno la maggior parte di
essi, sono magistrati e cioè in cui la sovranità coincide tanto capillarmente
con la volontà generale da bruciare tutte le scissioni da cui si presenta
solcato il corpo politico: tra legislativo ed esecutivo, pubblico e privato,
potere e sapere” (p. 60). Per Rousseau c’è vera democrazia solo se ciascuno è
“incorporato” nell’Uno della comunità e del potere “in modo che ogni
particolare – scriveva Rousseau nell’Emilio
– non si creda più uno, ma parte dell’unità e non sia più sensibile che nel
tutto” (J. J. Rousseau, Emilio, in Opere cit., p. 351, citato da Esposito, op. cit., p. 60).
Qui è il punto dolente della
democrazia diretta. “Sembrerebbe dunque – afferma Rousseau – che non si potesse
avere una migliore costituzione che quella in cui il potere esecutivo fosse
congiunto al legislativo: ma questo proprio rende tale governo insufficiente
sotto certi rispetti, perché le cose che devono essere distinte non lo sono, e
il principe e il sovrano, essendo la stessa persona, non formano, per così
dire, che un governo senza governo” (J. J. Rousseau, Il contratto sociale cit., p. 308, citato da Esposito, op. cit., p. 61). In realtà, commenta
Esposito, esiste una forma di governo in cui le duplicità e le molteplicità
vengono unificate in Uno, in cui governanti e governati, esecutivo e
legislativo, maggioranza e minoranza, palazzo del potere e strada del
cittadino, alto e basso sono inscindibili: questo governo è la “tirannide”.
“Tirannide – scrive Esposito – è l’unificazione coatta di ciò che deve essere
distinto: legislativo ed esecutivo, diritto e giustizia, potere e sapere” (p.
61). Ma questa forma estrema di democrazia compie il rovesciamento della stessa
nel suo contrario, producendo, insieme all’estinzione dell’esecutivo e dello
Stato, quella della democrazia. “La soppressione dello Stato – scriveva Lenin
in Stato e rivoluzione – è anche la
soppressione della democrazia, e […] l’estinzione dello Stato è l’estinzione
della democrazia” (V. I. Lenin, Stato e
rivoluzione (1917), Editori Riuniti, Roma 1970, p. 155, citato da Esposito,
op. cit., p. 63).
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Lenin (Vladinir Ilic Ulianov, 1870-1924) |
Esposito ricorda poi le
critiche di Nietzsche, di Weber, di Kelsen e di Schumpeter al mito comunitario
della democrazia diretta, basata sulla totale identificazione del corpo sociale
con le istituzioni che governano. Per questi autori è anzi da mettere in
discussione il concetto stesso di “bene comune” su cui si fondano i miti della
comunità e della volontà generale. Se la democrazia ha una possibilità di
sopravvivere senza diventare il suo contrario (tirannia) ciò può avvenire solo
se accetta che il “corpo sociale” sia attraversato da diversità e fratture non
armonizzabili, non riducibili, non neutralizzabili. Solo sottraendo alla
democrazia il mito della comunità come corpo unico, essa può rimanere una proposta
percorribile sul terreno politico. La democrazia deve restare “vuota di
comunità” – per usare l’espressione di Esposito – se vuole tentare di governare
il corpo sociale senza schiacciare il volere degli individui che lo
costituiscono.
Ma se questo è vero, allora
devono permanere le scissioni “classiche” della democrazia liberale: i
cittadini non sono il governo e il governo non coincide con i cittadini;
l’esecutivo non può coincidere con il legislativo e questo non può pretendere
di diventare esecutivo; la giustizia assoluta non è la legge, e la legge non
può diventare l’incarnazione della giustizia assoluta; il sapere non può
coincidere con il potere e questo non può togliere al primo la sua autonomia
sostituendosi alla libera ricerca; singolo e comunità, infine, devono rimanere
ben distinti. Corollario di queste affermazioni è che la democrazia deve essere
mediata da procedure, voti, controlli, confronti, istituzioni separate: se
pretende di essere diretta, elimina gli spazi del dissenso e della diversità,
elimina il controllo della minoranza sulla maggioranza. In una parola, si
trasforma in dittatura.
Apparentemente, liberalismo
e democrazia sembrano essere antitetici: il primo afferma la tutela
dell’individuo e delle sue libertà inviolabili; la seconda tutela la comunità
riducendo le differenze ad unum.
Eppure, a ben vedere, è solo dalla collaborazione tra le due forme di governo
che si può realizzare un sistema meno ingiusto dei due singolarmente presi. La
democrazia dovrebbe garantire l’uguaglianza davanti alla legge, la solidarietà
tra gli individui, la riduzione delle povertà più gravi e più diffuse. Tutto
ciò, però, dovrebbe avvenire nel rispetto delle libertà del singolo: la
democrazia non deve violare la sfera intima di queste libertà, sia di quelle
che riguardano l’agire l’esteriore, sia di quelle che riguardano la coscienza
dell’individuo. Allo stesso tempo, l’esercizio di queste libertà da parte del
singolo non deve né violare le leggi comuni né mettere in discussione il
vincolo di solidarietà che lo lega ai molti.
Perché il collegamento
difficile tra liberalismo e democrazia si realizzi e partorisca almeno – mi si
conceda la metafora – una “unione di fatto”, se non proprio un “sacro
matrimonio”, occorre che si rispettino le forme e le divisioni classiche tra i
poteri. La democrazia liberale deve essere “formale”, “procedurale”
e basata sulla distinzione tra istituzioni e cittadini, oltreché tra esecutivo,
legislativo, giudiziario. Se questo non avvenisse, la democrazia si
caricherebbe di valori mitici, come spiega Esposito, proponendosi di realizzare
la Giustizia, il Bene, il Volere del Popolo, l’Assoluto. In tal modo, come ho già
detto, scivolerebbe nella dittatura, distaccandosi dal liberalismo.
Secondo alcuni (in decisa
crescita numerica negli ultimi tempi) queste argomentazioni sarebbero state
superate dagli sviluppi della tecnologia: questa, si dice, consentirebbe di
realizzare la democrazia diretta e l’autogoverno. Il web, in particolare,
permetterebbe di effettuare “referendum quotidiani” (per utilizzare, fuori
contesto, la famosa espressione di Ernest Renan: “l'existence d'une nation est […] un plébiscite de tous les
jours”: Qu’est-ce qu’une nation?, cap. III, 1882) su ogni questione, facendo
coincidere, appunto, il governo con i governati. La democrazia rappresentativa,
in tal modo, verrebbe superata da una nuova, più avanzata e più diretta
democrazia popolare. Nel prossimo post vedremo se le cose stanno davvero così. (2 – continua)
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