martedì 2 aprile 2013

La democrazia diretta è un bene? Seconda parte.



Seconda parte: Estinzione dell’esecutivo e tirannia. Opposizione-collaborazione tra democrazia e liberalismo

Il filosofo Roberto Esposito

Scrive Roberto Esposito (tra i più importanti filosofi italiani della politica) che “l’Uno – il Bene, la Giustizia – non è traducibile in politica” (R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, (n.e.) Il Mulino, Bologna 2011, pp. 31-32). E ciò perché la politica è conflitto, molteplicità, divenire: impossibile ridurre ad uno ciò che per definizione è doppio e triplo, ciò che è fluido e inafferrabile. La possibilità di neutralizzare il conflitto, annullando le differenze, è atteggiamento “impolitico”; la politica, invece, è “irriducibilmente discorde” (p. 39).


Questa discordia “irrappresentabile”, afferma Esposito, è tanto più evidente nella democrazia. In Rousseau il valore della democrazia è la comunità, intesa come corpo organico e unitario, privo di differenziazioni. Il sistema democratico così inteso è talmente tanto difficile da rinvenire nella storia, che lo stesso Rousseau lo definisce al tempo stesso necessario e impossibile. Scrive infatti nel Contratto sociale: “a prendere la parola a rigore, una vera democrazia non è mai esistita né esisterà mai” (J. J. Rousseau, Il contratto sociale, in Id. Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 309, citato da Esposito, op. cit., p. 59). Perché la democrazia immaginata dal filosofo ginevrino sarebbe così difficile da realizzare? Perché, spiega Esposito, essa consiste in “quel regime in cui tutti i cittadini, o almeno la maggior parte di essi, sono magistrati e cioè in cui la sovranità coincide tanto capillarmente con la volontà generale da bruciare tutte le scissioni da cui si presenta solcato il corpo politico: tra legislativo ed esecutivo, pubblico e privato, potere e sapere” (p. 60). Per Rousseau c’è vera democrazia solo se ciascuno è “incorporato” nell’Uno della comunità e del potere “in modo che ogni particolare – scriveva Rousseau nell’Emilio – non si creda più uno, ma parte dell’unità e non sia più sensibile che nel tutto” (J. J. Rousseau, Emilio, in Opere cit., p. 351, citato da Esposito, op. cit., p. 60).
 
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
Qui è il punto dolente della democrazia diretta. “Sembrerebbe dunque – afferma Rousseau – che non si potesse avere una migliore costituzione che quella in cui il potere esecutivo fosse congiunto al legislativo: ma questo proprio rende tale governo insufficiente sotto certi rispetti, perché le cose che devono essere distinte non lo sono, e il principe e il sovrano, essendo la stessa persona, non formano, per così dire, che un governo senza governo” (J. J. Rousseau, Il contratto sociale cit., p. 308, citato da Esposito, op. cit., p. 61). In realtà, commenta Esposito, esiste una forma di governo in cui le duplicità e le molteplicità vengono unificate in Uno, in cui governanti e governati, esecutivo e legislativo, maggioranza e minoranza, palazzo del potere e strada del cittadino, alto e basso sono inscindibili: questo governo è la “tirannide”. “Tirannide – scrive Esposito – è l’unificazione coatta di ciò che deve essere distinto: legislativo ed esecutivo, diritto e giustizia, potere e sapere” (p. 61). Ma questa forma estrema di democrazia compie il rovesciamento della stessa nel suo contrario, producendo, insieme all’estinzione dell’esecutivo e dello Stato, quella della democrazia. “La soppressione dello Stato – scriveva Lenin in Stato e rivoluzione – è anche la soppressione della democrazia, e […] l’estinzione dello Stato è l’estinzione della democrazia” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), Editori Riuniti, Roma 1970, p. 155, citato da Esposito, op. cit., p. 63).
Lenin (Vladinir Ilic Ulianov, 1870-1924)

Esposito ricorda poi le critiche di Nietzsche, di Weber, di Kelsen e di Schumpeter al mito comunitario della democrazia diretta, basata sulla totale identificazione del corpo sociale con le istituzioni che governano. Per questi autori è anzi da mettere in discussione il concetto stesso di “bene comune” su cui si fondano i miti della comunità e della volontà generale. Se la democrazia ha una possibilità di sopravvivere senza diventare il suo contrario (tirannia) ciò può avvenire solo se accetta che il “corpo sociale” sia attraversato da diversità e fratture non armonizzabili, non riducibili, non neutralizzabili. Solo sottraendo alla democrazia il mito della comunità come corpo unico, essa può rimanere una proposta percorribile sul terreno politico. La democrazia deve restare “vuota di comunità” – per usare l’espressione di Esposito – se vuole tentare di governare il corpo sociale senza schiacciare il volere degli individui che lo costituiscono.



Ma se questo è vero, allora devono permanere le scissioni “classiche” della democrazia liberale: i cittadini non sono il governo e il governo non coincide con i cittadini; l’esecutivo non può coincidere con il legislativo e questo non può pretendere di diventare esecutivo; la giustizia assoluta non è la legge, e la legge non può diventare l’incarnazione della giustizia assoluta; il sapere non può coincidere con il potere e questo non può togliere al primo la sua autonomia sostituendosi alla libera ricerca; singolo e comunità, infine, devono rimanere ben distinti. Corollario di queste affermazioni è che la democrazia deve essere mediata da procedure, voti, controlli, confronti, istituzioni separate: se pretende di essere diretta, elimina gli spazi del dissenso e della diversità, elimina il controllo della minoranza sulla maggioranza. In una parola, si trasforma in dittatura.

Apparentemente, liberalismo e democrazia sembrano essere antitetici: il primo afferma la tutela dell’individuo e delle sue libertà inviolabili; la seconda tutela la comunità riducendo le differenze ad unum. Eppure, a ben vedere, è solo dalla collaborazione tra le due forme di governo che si può realizzare un sistema meno ingiusto dei due singolarmente presi. La democrazia dovrebbe garantire l’uguaglianza davanti alla legge, la solidarietà tra gli individui, la riduzione delle povertà più gravi e più diffuse. Tutto ciò, però, dovrebbe avvenire nel rispetto delle libertà del singolo: la democrazia non deve violare la sfera intima di queste libertà, sia di quelle che riguardano l’agire l’esteriore, sia di quelle che riguardano la coscienza dell’individuo. Allo stesso tempo, l’esercizio di queste libertà da parte del singolo non deve né violare le leggi comuni né mettere in discussione il vincolo di solidarietà che lo lega ai molti.

Perché il collegamento difficile tra liberalismo e democrazia si realizzi e partorisca almeno – mi si conceda la metafora – una “unione di fatto”, se non proprio un “sacro matrimonio”, occorre che si rispettino le forme e le divisioni classiche tra i poteri. La democrazia liberale deve essere “formale”, “procedurale” e basata sulla distinzione tra istituzioni e cittadini, oltreché tra esecutivo, legislativo, giudiziario. Se questo non avvenisse, la democrazia si caricherebbe di valori mitici, come spiega Esposito, proponendosi di realizzare la Giustizia, il Bene, il Volere del Popolo, l’Assoluto. In tal modo, come ho già detto, scivolerebbe nella dittatura, distaccandosi dal liberalismo.

Secondo alcuni (in decisa crescita numerica negli ultimi tempi) queste argomentazioni sarebbero state superate dagli sviluppi della tecnologia: questa, si dice, consentirebbe di realizzare la democrazia diretta e l’autogoverno. Il web, in particolare, permetterebbe di effettuare “referendum quotidiani” (per utilizzare, fuori contesto, la famosa espressione di Ernest Renan: “l'existence d'une nation est […] un plébiscite de tous les jours”: Qu’est-ce qu’une nation?, cap. III, 1882) su ogni questione, facendo coincidere, appunto, il governo con i governati. La democrazia rappresentativa, in tal modo, verrebbe superata da una nuova, più avanzata e più diretta democrazia popolare. Nel prossimo post vedremo se le cose stanno davvero così. (2 – continua)

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