Libertà o sicurezza?
Le rivelazioni del britannico Guardian del 6 giugno scorso, cui sono seguite, il giorno
successivo, quelle del Wall Street
Journal e del Washington Post, stanno
portando alla luce la dimensione assunta dalle intercettazioni spionistiche
effettuate dall’Nsa e dall’Fbi negli Stati Uniti d’America (per le notizie
relative vedi ad esempio il Corriere
della sera on line qui e qui).
Si tratta di un’attività di controllo e archiviazione di
conversazioni e dati privati circolanti sulle linee telefoniche dei principali
provider statunitensi (Verizon, At&t, Sprint), nonché nelle chat, nei
motori di ricerca internet e, a quanto sembra, anche su Youtube. Persino i
movimenti delle carte di credito di milioni di individui sarebbero stati
spiati. Il tutto è avvenuto per effetto di un programma di controterrorismo
denominato “Prism”: varato dall’amministrazione Bush, è stato adottato anche
dal governo di Obama che sembrerebbe averne fatto un uso abnorme. Come scrive
Andrea Stroppa sull’Huffington Post,
Prism “darebbe accesso immediato all’Nsa e all’Fbi ai server ed ai dati
personali degli utenti dei nove colossi più importtanti della rete: Microsoft,
Yahoo!, Google, Facebook, PalTalk, Aol, Skype, Youtube e Apple” (A. Stroppa, Prism: la dura verità, l’uscita che non esiste, ma anche un insegnamento, Huffington
Post, 7/6/2013). Niente privacy su internet, ma neppure nelle conversazioni
via etere e via cavo effettuate con un qualsiasi dispositivo telefonico (sugli aspetti tecnici di Prism cfr. Maurizio Molinari, Dalle cimici ai metadati, la cyber-intelligence sta tutta in un algoritmo, in La Stampa, 8/6/2013).
Che il problema della riservatezza sia il più delicato
nell’uso della rete, credo che ormai sia noto a tutti i suoi utilizzatori. Che
una grande potenza come gli Stati Uniti, impegnata da decenni nel conflitto contro
il terrorismo e nelle questioni, altrettanto delicate, della sicurezza dei suoi
cittadini, fosse intenzionata a controllare e spiare la vita di milioni di individui,
anche insospettabili, lo sappiamo almeno da quando George Bush jr. ha ottenuto dal
Congresso, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il via libera al Patriot Act che rafforzò i poteri di
Cia, Fbi e, appunto, Nsa. Sapevamo anche che altrettanto stavano facendo, sia
pure con minor dispiego di mezzi, molti altri paesi soggetti alla minaccia
terroristica.
Ciò che invece spesso fingiamo di non sapere è che in ogni
paese del mondo una parte rilevante delle operazioni di controllo e di
prevenzione del crimine, nonché di difesa del territorio e della sicurezza
nazionali, è costituita da quelle attività che gli americani chiamano covered, ovvero segrete e, in quanto
tali, svolte con modalità che sono talvolta, se non sempre, semilegali o
addirittura contra legem. Quel che
voglio dire è che persino un progetto di protezione della sicurezza nazionale
deliberato regolarmente da un organo legislativo, come sembrerebbe essere Prism
(lo ha ribadito ieri il Presidente Obama: vedi qui), persino un simile
programma, per quanto scelto e deliberato attraverso un percorso rispettoso
della legge e dei diritti dei cittadini, nel momento della sua esecuzione deve
essere sottratto all’attenzione del pubblico e dei mezzi di comunicazione, pena
il suo fallimento. Per sua stessa natura, un progetto di controllo delle
identità sospette non può essere trasparente, né l’operato di chi lo attua può
essere sottoposto ad un referendum popolare quotidiano. Ed è proprio per questa
natura segreta che l’attività degli organi di polizia e di spionaggio rischia
di violare i limiti della riservatezza individuale, poiché accumulerebbero così
tante informazioni da costituire una minaccia per la libertà e per l’indipendenza
dei singoli.
Non sto elogiando il governo degli Stati Uniti per il
progetto in questione, né intendo imbarcarmi nell’impresa di scrivere l’apologia
delle azioni di intelligence più o meno
“coperte”. Ma non posso evitare di chiedermi se accettare la presenza di cani
da guardia, che si muovono nell’ombra e su un terreno confinante con il crimine,
non sia una tragica conseguenza del complesso sistema di comunicazione che
abbiamo costruito negli ultimi 30 anni. Come può garantire la propria difesa
una nazione se le informazioni che circolano sul suo territorio, e al di fuori
di esso, possono trovare migliaia di canali aperti e liberi, attraverso i quali
potrebbero farsi strada i messaggi e i comportamenti più pericolosi? Come è possibile
garantire l’incolumità di tutti in un mondo in cui tutti comunicano come e con
chi vogliono, trasferendo dati di qualsiasi tipo, in qualsiasi luogo del
pianeta? È ancora possibile parlare di sicurezza in un simile mondo? O meglio:
è ancora possibile conciliare la tutela della sicurezza con quella delle
libertà individuali?
La domanda che mi pongo è sentita come vitale negli Stati
Uniti, soprattutto dopo l’attentato di Boston. Di recente la rivista Time ha ricostruito la vicenda di
Tamerlan Tsarnaev, rimasto ucciso nell’aprile scorso in uno scontro a fuoco con
la polizia che tentava di acciuffarlo (cfr Massimo Calabresi & Michael
Crowley, Homeland Insecurity. How far should the U.S. go?,
in Time, May 13, 2013). Chi era Tamerlan Tsarnaev? Uno degli
attentatori della maratona di Boston del 15 aprile, uno dei due fratelli ceceni
che hanno piazzato ordigni artigianali (pentole a pressione zeppe di chiodi)
lungo Boylston Street, vicino al traguardo della corsa, ordigni la cui
esplosione ha provocato la morte di tre persone e il ferimento di altre 200,
alcune delle quali sono rimaste gravemente mutilate. Ebbene, Tamerlan, come ha
spiegato il Time, aveva seguito un
graduale percorso verso la sponda radicale dell’islamismo, tanto da
trasformarsi in pochi mesi, da boxer perfettamente integrato nel sistema
consumistico nordamericano, in una potenziale minaccia per la sicurezza dei
cittadini. I servizi segreti americani lo avevano intercettato già nel 2011 ma,
dopo aver seguito le procedure di controllo previste dalla legge, non
riscontrando nel suo comportamento politico nulla più che un atteggiamento politico
radicale, hanno interrotto ogni indagine, classificando il soggetto come non
pericoloso. Anche la sua ribellione dell’agosto 2012 contro la Islamic Society
di Boston non passò inosservata, perché Tamerlan apostrofò violentemente l’imam
della moschea durante un sermone (che il giovane contestatore riteneva in
contrasto con l’Islam) attirando su di sé l’attenzione di molte persone. Eppure
anche in quell’occasione non fu sottoposto ad indagine.
Ma non è finita qui: Tamerlan subito dopo questa sparata aprì
un canale Youtube in cui postò parecchi video di promozione dell’attività
islamista radicale. In uno di questi si vedevano militanti armati che si
addestravano; in un altro si celebrava la sconfitta degli infedeli attraverso
la jihad. Le autorità avrebbero potuto intervenire, ma non lo fecero, ritenendo
superflua un’indagine nei confronti di un ennesimo radicale islamista che
avrebbe potuto appellarsi al primo e al quarto emendamento della Costituzione
americana (quelli che garantiscono: la libertà di culto, parola e stampa; la
difesa da perquisizioni, arresti e confische irragionevoli). “Un attento agente
federale - commentano gli autori dell’articolo del Time - avrebbe potuto ravvisare in questi atteggiamenti un modello
di comportamento pericoloso”.
Quando si è saputo che Tamerlan era già noto alle autorità,
si è acceso un rabbioso dibattito a Washington su come utilizzare e condividere
certe informazioni, che potrebbero servire nell’azione di prevenzione degli
attentati. La vicenda degli attentatori di Boston è sembrata a molti la replica
di quel che era accaduto l’11 settembre, quando fallì proprio la comunicazione
tra i servizi di intelligence e la
magistratura che dovrebbe autorizzare i controlli più delicati. In entrambi i
casi nessuno violò la privacy dei soggetti potenzialmente più pericolosi, al
fine di approfondire la conoscenza di comportamenti sospetti. Eppure, dopo l’attentato
alle Torri gemelle, le leggi sul controterrorismo avevano affidato all’Fbi poteri
di investigazione più aggressivi e più penetranti. Come mai nel caso dei
fratelli Tsarnaev non hanno funzionato?
Il Time sostiene
che con Obama queste leggi non sono venute meno, ma la nuova amministrazione ha
inaugurato nei confronti del mondo islamico, specie nei confronti dei musulmani
viventi in America, una diversa
strategia, basata sulla conquista della loro fiducia, sul dialogo e sulla cooperazione,
al fine di prevenire il terrorismo piuttosto che reprimerlo. Inoltre, per
effettuare operazioni “sotto copertura”, un agente dell’Fbi oggi deve chiedere
il permesso ad una speciale commissione di Washington che rilascia di rado questo
genere di autorizzazioni. Le nuove linee guida di Obama potrebbero aver ridotto
l’attenzione degli agenti federali? Philip Mudd, ex cacciatore di terroristi
per conto di Fbi e Cia, dichiara al Time
che “nemmeno se volessimo potremmo controllare tutti i radicali presenti nel
nostro paese”; e del resto – aggiunge - non solo “anche i Padri Fondatori erano
radicali”, ma bisogna ricordare che “noi [americani] abbiamo una Costituzione
la quale dice che sul nostro territorio si è liberi di essere radicali e di
parlare comunque si voglia parlare”. Nel 2011, infine, il Consiglio per le
relazioni Islamico-Americane querelò l’Fbi per aver violato i diritti civili
dei musulmani nel sud della California, poiché erano stati usati agenti
infiltrati nelle moschee e si era così attuata una “sorveglianza indiscriminata”.
È comprensibile che, schiacciati tra le nuove procedure
volute da Obama e il rischio di essere denunciati per la violazione del Quarto
emendamento, gli organismi di sorveglianza debbano muoversi con maggior
attenzione, con minor pubblicità possibile, con minor trasparenza, con più
segretezza. Oppure scegliere di allentare i controlli, di rinunciare ad
indagare a fondo nella vita di cittadini sospetti, di evitare di rovesciare le esistenze
di individui comuni come un calzino, con il rischio di trovarvi pochissimo. In
entrambi i casi essi corrono un rischio: nel primo caso di venire smascherati e
accusati di violare la privacy dei cittadini; nel secondo caso di aver agito
con leggerezza e di non essersi accorti per tempo di una potenziale minaccia.
Gli Stati Uniti hanno vissuto, nell’ultimo mese, entrambe le circostanze: il
caso di Boston ha mostrato i limiti operativi delle agenzie di controllo; il
caso Prism ha messo in luce i rischi di violazione della libertà personale che le
loro attività più efficaci possono generare.
Questa schizofrenica situazione è presente anche nell’opinione
pubblica americana. Il sondaggio pubblicato dal Time documenta che il 40 % della popolazione degli Usa teme che
qualche membro della propria famiglia possa rimanere ucciso in un attentato
terroristico; il 41% pensa che il governo abbia gli strumenti per prevenire gli
attentati; il 61% ritiene addirittura che il governo, dopo Boston, assumerà
decisioni restrittive delle libertà civili. Ma ben il 59% dei cittadini
americani è oggi più preoccupato che mai della possibilità che il governo spii
le telefonate private, che intercetti le comunicazioni via e-mail, che eserciti
insomma un controllo capillare sulle vite degli individui.
Sicurezza o libertà? È possibile farle convivere in un mondo
sempre più globalizzato e intercomunicante? Come prevenire gli attentati
preservando al contempo la nostra libertà, di cui la riservatezza delle
comunicazioni è parte integrante? Il dibattito negli Usa è iniziato, mentre da
noi langue. In Italia, ad esempio, si preferisce usare strumentalmente tali
questioni: se Bush emana il Patriot Act
la sinistra lo attacca e lo condanna perché, spiando le nostre vite con il
pretesto della sicurezza, farebbe gli interessi delle multinazionali. Se è
Obama ad attuare norme simili la stessa sinistra tace imbarazzata, ma si
scatena la destra che lo accusa di essere meno affidabile del suo predecessore.
Da notare che questi atteggiamenti faziosi non esistono tra le forze politiche
statunitensi: di fronte agli attacchi della stampa sul caso Prism, non solo il
Partito democratico, ma anche quello repubblicano ha preso le difese del
Presidente, mostrando una lungimiranza bipartisan
del tutto impensabile nel nostro paese.
Naturalmente il rischio di essere spiati dal governo deve preoccupare
ogni vero amante della libertà. Tuttavia credo che la domanda posta dal Time sia pertinente: “poiché il Quarto
emendamento tutela i cittadini contro le indagini irragionevoli, sembra
corretto chiedersi cosa sia un’indagine ragionevole, in un mondo in cui un
individuo solitario può confezionare una bomba con una pentola a pressione” (art. cit. del Time). Perciò,
svegliamoci: prima cominceremo a porci questo interrogativo anche qui, in
Europa, prima potremo cercare gli strumenti per mantenere in equilibrio sicurezza
e libertà. Ma prima dovremo aver trovato una risposta a quest’altro
interrogativo: nell’era di internet, esistono ancora la libertà e la sicurezza?
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