martedì 23 luglio 2013

Le origini della nostra crisi: seconda parte

I due volti della globalizzazione: crisi in Occidente, sviluppo in Oriente.
(Seconda e ultima parte)


Le bandiere dei 5 BRICS


Dal 1945 alla fine del Novecento abbiamo conosciuto un secondo periodo di convergenza e globalizzazione, caratterizzato dai seguenti aspetti:
1) forte integrazione dei mercati capitalisti, specie di quello europeo con quello nordamericano;
2) esclusione da questa integrazione del mercato dell’Europa orientale, a causa dell’auto-isolamento imposto dal comunismo a questa regione dal dopoguerra fino al 1991;
3) parziale subordinazione al commercio globale dei paesi del Terzo mondo, utilizzati come produttori di materie prime (combustibili fossili, soprattutto) e di derrate alimentari (grano, carne), acquistati ai prezzi imposti dal più forte mercato capitalista: a lungo andare questa condizione di inferiorità si ribalterà in occasione di crescita per alcuni paesi, i futuri Brics (vedere punto 6);
4) ripresa e sviluppo dell’Europa occidentale, che ha cominciato a creare istituzioni federali per tutelarsi dalla concorrenza americana e dal rischio di ricadute nel nazionalismo aggressivo;
5) integrazione molto intensa dei mercati finanziari grazie all’uso della telematica: la finanza globale ha così assunto, a partire dagli ultimi due-tre decenni del Novecento, un ruolo preponderante rispetto agli altri settori economici, diventando una sorta di economia a sé stante, capace, per giunta, di esprimere un proprio potere politico, in grado di condizionare le scelte dei governi nazionali;
I BRICS
6) infine, uscita dall’arretratezza di alcuni paesi un tempo esclusi o subordinati, grazie alla ricchezza accumulata attraverso il commercio globale: il decollo di questi territori (paesi produttori di petrolio, di gas, di generi alimentari, ma anche di tecnologia, come nel caso dell’India e della Cina) è un fenomeno iniziato solo negli ultimi due decenni del secolo scorso.

Il simbolo del WTO

Questa seconda globalizzazione porta con sé, come accaduto già con la prima, aspetti positivi e negativi. Innanzitutto essa, essendo più estesa e più profonda della precedente, tende ad espropriare i governi nazionali della loro sovranità. Non a caso, per evitare di lasciare il mercato mondiale in balia dell’influenza anonima del potere finanziario, sono sorte o sono state rafforzate istituzioni internazionali come l’Onu, ma anche come il WTO, la World Bank, il FMI, l’Ocse: la loro funzione, malgrado le critiche mossegli di essere prone ai poteri forti delle banche e delle multinazionali, è, all’opposto, proprio quella di ripristinare i luoghi della decisione politica, che la globalizzazione tende ad esautorare. In secondo luogo, la potente spinta verso l’integrazione di capitali, merci, persone, cultura tende ad omologare stili di consumo e di vita, producendo simboli, comportamenti e idee uniformi, o tendenzialmente tali, in ogni attività umana. In terzo luogo, le conflittualità non vengono meno, malgrado questa spinta omologante: come mise in luce alcuni anni fa un altro studioso del fenomeno (Ian Clark, Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, (1997), tr. it. Bologna, Il Mulino, 2001), ogni ondata di convergenza e di integrazione suscita spinte e reazioni contrarie che, a loro volta, cercano di governare, adattare, smussare o addirittura contrastare l’uniformità, difendendo le specificità culturali, le differenze, persino le diseguaglianze. Da questo punto di vista, la globalizzazione non ha inventato nulla di nuovo: già la prima rivoluzione industriale suscitò avversioni e resistenze alla tendenza, insita in quella “grande trasformazione”, a convertire ogni aspetto della vita in merce (è questo il cosiddetto fenomeno che Polany chiamò del “doppio movimento”: cfr. Karl Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, (1944), tr. it. Torino, Einaudi, 1974).

D’altro canto, questa seconda globalizzazione, grazie alla liberalizzazione dei mercati, ha consentito a nazioni arretrate di farsi avanti, di progredire, di emergere fino a riuscire a sfidare le potenze economiche dell’Occidente, Stati Uniti e Europa. Oggi i paesi che investono di più all’estero, acquisendo aziende in tutti i continenti, sono Cina, India e Brasile. Se nel 2000 tra le prime 30 aziende multinazionali al mondo non ve n’era nessuna appartenente ai paesi emergenti, oggi ve ne sono ben 7, di cui tre cinesi (cfr. la classifica predisposta dal “Centro Nuovo Modello di Sviluppo”). In particolare, la Cina è la più combattiva e intraprendente: secondo il “Boston Consulting Group”, società di consulenza tra le più importanti al mondo, nell’anno corrente tra le 100 compagnie di paesi emergenti che stanno per diventare multinazionali, ben 41 sono cinesi (cfr. Tra i big delle multinazionali 41 cinesi, in agichina24.it). Sono aziende che producono in ogni campo, dal tessile al petrolifero, dall’automobilistico all’alimentare. Ancora: se negli anni Novanta del Novecento tra le 100 economie più sviluppate al mondo compariva solo la Cina tra i paesi emergenti, e in posizione molto arretrata, oggi non solo i cinesi si collocano al secondo posto, ma troviamo il Brasile al settimo posto, l’India al nono, la Russia al decimo (cfr. Francesco Spini, Chi sono i Brics motori del mondo, La Stampa, 25 marzo 2013). Tra il 2000 e il 2010 le economie dei Brics sono cresciute ad una media annua dell’8,1%, mentre persino gli Usa sono progrediti lentamente, solo dell’1,6% annuo, e l’area euro di un misero 1,2% (ibidem). Secondo le elaborazioni di Goldman Sachs, entro il 2020 i Brics cresceranno mediamente del 6,6%, malgrado un prevedibile rallentamento della Cina (ibidem). A Durban, nel corso del vertice internazionale sulla collaborazione tra Brics e Africa tenutosi nel marzo scorso, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa hanno sottoscritto l’accordo per la fondazione di una Banca internazionale che servirà a finanziare esclusivamente i paesi emergenti che si assoceranno ad essa: una “banca dei Brics”, destinata a diventare il primo colosso finanziario al mondo (cfr. Al vertice di Durban i Brics lanciano la banca di sviluppo comune, in Euronews, 27 marzo 2013).

I 5 capi di governo BRICS durante il summit di Durban, marzo 2013

Lo sviluppo dei Brics, provocato dalla globalizzazione e dal libero scambio, mette l’intero mondo di fronte ad una novità assoluta: lo spostamento massiccio della ricchezza dalle mani dell’Occidente a quelle dell’Oriente e dell’America meridionale. Questa dislocazione della forza economica inevitabilmente sottrae privilegi e benessere all’Europa e agli Stati Uniti, poiché la sfida portata dai paesi emergenti è in sostanza basata sulla produzione di merci a bassissimo costo, condizione che l’Occidente non può sopportare: nei paesi di questa parte del mondo non solo il lavoro è caro, ma tutto ha un costo salato, a cominciare dal welfare state per arrivare alla tutela dei diritti e dell’ambiente. Perciò le aziende europee e americane dei tessuti, del cibo, della meccanica, ed anche della tecnologia, entrano in crisi e devono scegliere tra delocalizzazione o fallimento. Perciò gli stati occidentali stanno tagliando sempre più le spese e ridimensionando le politiche assistenziali: non possono più spremere tasse dalla società, poiché questa si è impoverita sotto la pressione della concorrenza dei Brics. Il cambiamento epocale cui stiamo assistendo per ora riguarda l’economia e la società, ma non tarderà a manifestarsi anche nel campo dei rapporti di forza politici: chi non ama l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, ora può festeggiare, perché nel futuro le scelte politiche più importanti saranno sempre meno condizionate da Washington e da Londra, e sempre più da Pechino, da Nuova Delhi e da Mosca.
Arriviamo a questo punto alla questione da cui siamo partiti: anche risolvendo i nostri problemi di debito pubblico, anche abbattendo drasticamente il carico fiscale su famiglie e lavoro, anche riducendo al minimo il nostro welfare, o eliminandolo del tutto, ed anche sopprimendo completamente i costi delle inefficienze, politica compresa, rimarrebbe comunque il problema di fondo della globalizzazione. In che modo l’Italia potrà far fronte alla concorrenza di giganti come la Cina e l’India, dove vi è un mercato interno di centinaia di milioni di esseri umani, dove la forza lavoro è abbondante e a buon mercato, dove il desiderio di riscatto (unito ad una malcelata volontà di rivalsa verso l’Occidente) è avvertito da tutta la popolazione, dai più giovani ai più anziani? In che modo potremo sconfiggere la marea montante di un’inarrestabile integrazione delle economie mondiali, la quale premierà chi saprà vendere di più, approfittando delle libere frontiere e dell’eliminazione delle dogane, dei divieti e dei dazi? Qualcuno sostiene che ci salveremo uscendo dall’euro e scegliendo il protezionismo. Mi chiedo ancora: quanto potremmo resistere in questo caso? Isolati economicamente e senza la copertura offerta dalla solidità di una valuta forte? Dovremmo sperare in due eventi: che tutti gli altri paesi adottino politiche isolazioniste e protezioniste; che si ricorra alla “politica di potenza”, quindi alla guerra, per conquistare risorse e mercati. Insomma, che si ripresenti un’altra epoca di de-globalizzazione e divergenza, con tanto di conflitti inter-statali, di colonialismo e di catastrofi belliche. In un simile contesto, dove la parola sarebbe lasciata alla forza bruta, tutto potrebbe accadere e anche i paesi più deboli avrebbero una chance.



Attenzione a quel che si dice e che si fa quando si tuona contro la globalizzazione. Questo fenomeno porta con sé molti aspetti negativi, come ho detto. Uno di questi è sicuramente l’emarginazione di paesi come il nostro, incapaci di reggere la sfida a causa delle dimensioni territoriali, della carenza di risorse ed anche delle errate decisioni politiche. Ma il contrario della globalizzazione, mi sia consentito dirlo, è uno scenario decisamente peggiore: protezionismo, contrapposizione politico-militare, rifiuto del dialogo e della collaborazione, opposizione nei confronti di tutte le organizzazioni internazionali. Non me lo augurerei, non lo augurerei ai nostri figli. Chi lo auspica è un profeta di sciagure.

Quel che dovremmo cominciare ad accettare, invece, è il radicale spostamento di potenza economico-politica che si sta verificando, accogliendo l’idea che i nostri consumi dovranno essere ridimensionati, almeno temporaneamente, e con essi i privilegi di cui l’Occidente ha goduto per molti decenni. Questo nuovo scenario non significa rinunciare completamente al ruolo storico di “culla della civiltà” di cui il mondo occidentale è andato giustamente fiero. Al contrario, si tratta di recuperare questa funzione nel senso più vero ed originario: l’Occidente deve usare la propria cultura per convincere i nuovi padroni a sobbarcarsi la loro parte di oneri, a riconoscere diritti alle loro popolazioni, ad abbracciare l’idea e la prassi della libertà, ad ammettere che le relazioni fra gli stati devono essere ispirate al dialogo e alla collaborazione. Insomma, il nostro mercato potrebbe essere invaso da merci cinesi, ma se sapremo essere orgogliosi della nostra tradizione liberale potremmo conquistare il cuore dei nuovi signori della terra: “Graecia capta, ferum victorem cepit…”. Se saprà svolgere questo compito, l’Occidente potrebbe recuperare anche una parte di quella ricchezza che oggi sembra irrimediabilmente perduta. In caso contrario, potremmo diventare una turbolenta periferia dei nuovi imperi partoriti dalla globalizzazione. (2-fine)


2 commenti:

  1. I due articoli sono come sempre ben redatti e approfonditi anche se non lasciano intravedere una soluzione, una rotta da seguire per il nostro Paese.
    Dal punto di vista economico è chiaro che il progressivo impoverimento degli italiani è un danno per le stesse imprese alle quali, già messe male in un contesto globale, viene a mancare anche il sostegno del mercato interno, quindi riescono a sopravvivere principalmente le aziende che esportano.
    Purtroppo sia lo Stato che le imprese, mentre in altri paesi da tempo stanno approntando opportune contromisure, in Italia invece dormono il sonno dell’incoscienza confidando nel Berlusconi o nel Monti di turno.
    Gli USA ad esempio sopportano meglio la crisi proprio grazie al notevole consumo interno. Il Giappone, forte esportatore, invece punta insieme agli USA anche sugli investimenti pubblici.
    Sul fronte del debito pubblico italiano, tagliare il welfare, il servizio sanitario e l’istruzione che è stato cavallo di battaglia degli ultimi governi, non solo ha ridotto la qualità di vita dei cittadini, ipotecando anche il futuro dei nostri giovani, ma ha impedito che il denaro pubblico destinato a queste attività rientrasse in circolo favorendo la crescita del consumo interno.
    Riguardo alle imprese c’è da sottolineare che in Italia purtroppo l’economia è stata per decenni drogata dal ricorso ai contributi dello Stato, sono davvero poche le aziende veramente competitive che si possono confrontare con quelle straniere, sia per qualità che per costi.
    Anche esportare in oriente la produzione è stata una politica suicida: quanto tempo ci vorrà prima i cinesi imparino a produrre i nostri prodotti meglio di noi? Cinquant’anni fa la Sony faceva le radioline a transistor, oggi è un colosso dell’elettronica.
    Continuando a ridurre i diritti e la remunerazione dei lavoratori, come è stato per la recente politica italiana, non saremmo mai competitivi con i cinesi, i coreani e gli indiani. D'altronde non possiamo neanche costringere le imprese a fallire rimanendo in Italia oppure forzare le imprese straniere a investire nel nostro Paese.
    E così mentre i nostri migliori giovani sono accolti a braccia aperte all’estero, nel nostro Paese le aziende continuano a non investire e prima o poi chiudono.
    Ma non è solo colpa dell'eccessiva cautela delle imprese, anche lo Stato deve fare la sua parte. Certamente non può e non deve aiutare economicamente le imprese ma può almeno semplificare l’iter amministrativo ad esempio per permessi, pagamenti di contributi e imposte mentre deve assolutamente garantire un’amministrazione pubblica trasparente ed onesta: basta con gli appalti truccati e con i vincitori decisi a priori che impediscono alle imprese sane di concorrere.
    E che la disonestà rappresenti un incredibile costo per la collettività non sono solo parole, nel 2012 nella sua relazione il procuratore generale aggiunto della Corte dei Conti dichiarò che la corruzione in Italia valeva circa 60 miliardi di euro l'anno, ma che la lotta alla corruzione ne aveva accertati appena 75 milioni. Queste risorse, equivalenti al costo annuo di oltre 1 milione di lavoratori, vengono sottratte agli investimenti pubblici finendo nei paradisi fiscali, mentre potrebbero invece essere destinati alle infrastrutture.
    In Cina, dove negli ultimi quindici anni almeno 18.000 funzionari sono scappati dalla Cina trasferendo illegalmente all’estero quasi cento miliardi di euro, è iniziata una grande operazione e l’ex segretario di partito Luo Yinguo insieme a centinaia di funzionari cinesi sono finiti recentemente finiti in manette; ci facciamo battere dai cinesi anche in questo.
    In sintesi, ben lungi voler trovare una ricetta, sostengo che se ci troviamo sempre peggio in un mercato globale la colpa è anche nostra, della mentalità attendista, dello scarso senso civico e dell'individualismo da parte dei cittadini e delle imprese, ma anche della corruttibilità, della mentalità assistenzialista e della incapacità di controllare e sanzionare da parte dello Stato.

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    1. Gentile signore/a, ho risposto, appena un attimo fa, ad un altro commento anonimo. Come ho spiegato là, di solito non rispondo a scritti anonimi; ma, come per quello, anche per questo valgono le stesse motivazioni per spiegare il perché del mio derogare alla norma. Il suo commento è educato, motivato e ponderoso, perciò credo che meriti una risposta. Magari lei è lo stesso autore dell'altro commento (dallo stile sembrerebbe così), ma, se non lo è, la invito a leggere la risposta che ho dato sotto il post del 18 marzo 2013.
      Venendo alle questioni affrontate dal suo commento, che dire? Sono d'accordo con lei quasi su tutto. Sarei un po' più cauto sul ruolo dello Stato: non so se la ripresa economica dipenda dal suo intervento, forse sì, ma sono diffidente sui risultati. Riguardo alle soluzioni, o vie d'uscita dalla crisi, non ne ho date né indicate, è vero, ma non era neppure nei miei intenti: ho solo cercato di individuare le cause della crisi, sulle soluzioni sono pessimista, me lo lasci dire. Temo che siamo ad una svolta epocale: l'Occidente forse dovrà cedere parte della sua ricchezza, e l'esito sarà meno benessere per tutti i suoi abitanti, più insicurezza, forse più povertà. A chi andrà questa ricchezza perduta? Credo ai Brics ed ad altri che si uniranno ad essi. La decrescita felice è un'illusione.
      C'è un punto su cui sono particolarmente d'accordo con lei: la questione delle responsabilità di noi italiani. Nell'epoca in cui si potevano fare riforme (ad esempio negli anni Ottanta) abbiamo preferito svalutazione e debito pubblico: la prima l'hanno voluta imprese e sindacati (per recuperare concorrenza, per mantenere i posti di lavoro); il secondo i cittadini e i politici (i primi per avere un welfare dispendioso e poco efficace, ma rivolto a tutti; i secondi per avere voti). Altrove, come lei giustamente ricorda, si sono preferite le riforme, anche se dolorose (si veda il caso inglese), per avere la gallina domani; in Italia si è preferito mangiare subito l'uovo, senza pensare alle generazioni future. Attribuire colpe solo ai politici è semplicistico, poiché è evidente che in Italia c'è stato per decenni un patto tra cittadini e casta politica: noi ti diano il voto, tu, "casta", ci dai soldi a pioggia, anche se verranno sprecati o se finiranno in mani sbagliate. Il risveglio amaro e doloroso è arrivato con l'euro, come sappiano. Per questo uscire dalla moneta unica significherebbe per noi italiani tornare a quel sistema senza più nemmeno la preoccupazione di doverlo cambiare, preoccupazione che almeno, ora, sentiamo un po' tutti quanti.
      La saluto cordialmente, invitandola a ritornare, a lasciare di nuovo commenti e, questa volta, ad apporre il suo nome. A presto!

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