Frottole rosse
(La storia che segue, divisa in due
puntate, è accaduta veramente.
Ho solo cambiato un paio di nomi)
Sarà stato ottobre, o forse
novembre, del 1975. Avevo 16 anni e frequentavo la terza classe del Liceo
scientifico della mia città.
Erano anni di forte
ideologizzazione nelle scuole, anni in cui muovevano i primi passi i
“parlamentini” disegnati dai Decreti Delegati: quegli Organi Collegiali che
ancora esistono, sebbene oggi siano diventati rinsecchiti e burocratici
organismi in cui spesso si celebra il nulla. Ma allora, nell’anno del loro
primo apparire, sembravano un’invenzione rivoluzionaria, una novità che avrebbe
portato, si diceva, la democrazia e la società dentro le vecchie strutture
scolastiche. Le centrali della propaganda ideologica dell’epoca, ovvero i
partiti, si mossero all’unisono per non lasciarsi sfuggire l’occasione di
penetrare nei dibattiti e nelle riunioni che iniziarono a tenersi nelle aule di
tutto il Paese.
Liceo Classico Parini (Milano), inizio anni Settanta |
Grazie ai Decreti Delegati,
infatti, si cominciò a officiare da quell’anno, nelle scuole di tutta Italia,
un rito analogo a quello che si svolgeva nell’agone politico nazionale: lo
scontro ideologico, condotto a colpi di antifascismo, di Costituzione, di “arco
costituzionale” e così via. Lo scopo era vincere le elezioni per i pochi posti
di rappresentante, dei genitori e degli studenti, negli Organi Collegiali. Tra
questi il più ambito era il Consiglio d’Istituto, laddove, si diceva, si
sarebbe decisa la “politica della scuola”. Perciò gruppi attivi di studenti e
di genitori si riunivano, talvolta insieme, per mettere a punto le liste dei
candidati e, soprattutto, per pensare e per scrivere i programmi “politici” con
cui si presentavano i candidati. Nelle case dei genitori più impegnati
fioccavano riunioni carbonare per comporre i programmi, scegliere i candidati,
decidere il motto della lista. Le competizioni elettorali assomigliavano a
quelle della politica nazionale, poiché veniva combattuta da liste contrapposte
identificabili, in modo inequivocabile, grazie a precisi segnali ideologici: il
riferimento ad una serie di parole-simbolo (libertà, democrazia, classe
operaia, Costituzione, società, lavoro, antifascismo o anticomunismo…); oppure il
richiamo a personaggi politici del passato più o meno recente (Gramsci, Nenni, De
Gasperi, Togliatti, Papa Giovanni, Dossetti…); oppure ancora l’uso di motti
espliciti (“immaginazione al potere”; “no alla scuola dei padroni”; “vietato
vietare”…). Tutto questo armamentario di simboli, dicevo, serviva a dichiarare
in quale luogo dello schieramento politico collocare la lista, se a destra, se
al centro, se a sinistra. In genere tra le liste dei genitori vincevano quelle
di centro, d’ispirazione parrocchiale-cattolica, e quelle di sinistra
social-comuniste: i seggi erano spartiti tra questi due schieramenti, come
accadeva, grosso modo, nel Parlamento nazionale. Tra le liste degli studenti,
invece, vincevano (e a mani basse) quelle di sinistra: noi studenti eravamo
tutti più o meno ideologizzati verso quella direzione. Forti, ma non abbastanza
da riuscire a vincere, erano le liste ispirate al cattolicesimo moderato; del
tutto minoritarie quelle di destra estrema, organizzate da gruppi di studenti
che ruotavano attorno al Movimento sociale italiano. Queste ultime erano
insignificanti dal punto di vista numerico, ma la loro esistenza era
sufficiente a far credere, a noi studenti di sinistra, che fosse in atto un
colpo di Stato neofascista.
Ritorniamo a quell’autunno
del ’75. Ricordo benissimo, come fosse ieri, una riunione in casa mia tenutasi
per la preparazione della lista di sinistra dei genitori. L’avevano convocata
una signora molto combattiva (la chiameremo Maria), militante del Pci in un
vicino paese della Vallesina, e mio padre, allora simpatizzante del Partito
comunista, sebbene “critico” – come lui amava definirsi - nonché attivista
sindacale. La signora Maria aveva anni di esperienza politica alle spalle, era
stata anche amministratrice nel suo comune ed un suo parente era deputato in
Parlamento. Tutta la sua famiglia, sebbene ricca, era nota per essere un clan
“rosso” e per aver condotto epiche battaglie contro molti avversari politici in
tante sedi: consigli regionali, provinciali e comunali, assemblee cittadine,
riunioni di quartiere e persino di condominio. Averla dalla nostra parte era quasi
una garanzia di successo. Gli altri genitori presenti erano più o meno prossimi
all’area di sinistra: un signore che si proclamava “laico e repubblicano”; una
professoressa (ma lì presente in qualità di madre) “seguace di Pannella”; un
commerciante che si professava “ateo e progressista”; una signora, casalinga,
che si presentò come “madre dalle vedute larghe e femminista”.
Alla riunione vi erano anche
due studenti: una ragazzina che frequentava la prima classe del Liceo,
occhialuta, bruttina, ma arrabbiatissima; ed io. La ragazza si era da poco
avvicinata al gruppo denominato “Il Collettivo”, sorto da qualche mese dentro
la scuola, che riuniva studenti di estrema sinistra: il gruppo aveva una sua piccola
sede, leader noti nel nostro paesello, contatti con altri simili raggruppamenti
nelle città vicine. In quegli anni formazioni come questa esistevano quasi in
ogni angolo d’Italia, spesso erano costituite da poche decine di studenti.
Questi, una volta diventati maggiorenni, di solito esprimevano il loro voto, in
occasione delle elezioni politiche, per partiti rumorosi ma piccoli, così
piccoli che i loro iscritti e simpatizzanti erano spregiativamente denominati,
dalla sinistra ufficiale, “gruppettari”: il Partito di unità proletaria,
Avanguardia operaia, Democrazia proletaria, Nuova sinistra unita e così via.
Studenti come quelli del “Collettivo” erano, insomma, “gruppettari” che rappresentavano
una spina nel fianco (sinistro) del Pci. Erano molto critici nei confronti dei
leader comunisti, talvolta violentemente critici, poiché si ispiravano al
marxismo rivoluzionario e al leninismo in modo esplicito, rifiutando la
cosiddetta “svolta revisionista” operata dal Partito comunista italiano nel
corso dei primi anni Settanta, sotto la guida di Berlinguer. Ricordo gli slogan
contro il segretario del Pci che urlavamo alle manifestazioni studentesche
organizzate da Lotta continua: “Berlinguer, sei come un ravanello, rosso fuori,
bianco nel cervello!”. Gruppi come “Il Collettivo” erano considerati pericolosi
anche per l’intesa che alcuni dei suoi membri coltivavano con quelle aree che
le autorità ritenevano eversive. E che in seguito, purtroppo, tali si sarebbero
rivelate.
Anch’io mi ero fatalmente
avvicinato al “Collettivo” e partecipavo alle sue riunioni, dove si parlava di
politica, di rivoluzione, di società senza classi. Ho detto “fatalmente” perché,
proprio in quell’anno, mi ero scoperto interessato alla politica e avevo
cominciato a professarmi “marxista e basta”, senza altri aggettivi. Fatale,
perciò, ovvero inevitabile, fu il mio incontro con quel gruppo che si
professava rivoluzionario e quindi, ai miei occhi, marxista ortodosso.
Politica, rivoluzione, marxismo… Naturalmente credevo di conoscere i
significati di queste parole e, soprattutto, pensavo che in quel gruppo ne
sapessero ancor di più. Perciò, curioso e affamato com’ero di informazioni e di
protagonismo, presi a frequentarlo con l’ingenua fede del neofita, con la
sprovveduta impazienza del principiante convinto di avere scoperto una verità,
di aver visto una luce di cui gli adulti, conservatori “a prescindere”, non si
erano mai accorti. E quella verità intendevo rivelare al mondo prima possibile,
poiché il mondo, ne ero convinto, non vedeva l’ora di pendere dalle mie labbra.
Se quella verità si fosse affermata,
pensavo, il mondo sarebbe stato più libero: chi rifiuterebbe di essere più
libero, mi chiedevo? Tutti amano la libertà, tutti aspirano ad essa. Non mi
sfiorava minimamente il dubbio che vi fosse qualche contraddizione tra il
marxismo e la libertà, né che qualcuno fosse disposto ad uccidere per affermare
la mia stessa verità. La nostra provincia pareva ancora lontana da certe
manifestazioni di violenza, isola felice e protetta dal perbenismo, dalle mamme
apprensive e dai papà progressisti. Neppure mi sfiorava il dubbio che per
qualcuno potesse esistere qualcosa di più desiderabile della libertà; che per
qualcuno fosse il potere, non la libertà, ad essere davvero seducente. E che
per il potere si potesse deviare dalla verità, anzi che si potesse mentire. In
quella riunione dell’ottobre 1975 l’avrei scoperto.
Pubblicazione di Stampa Alternativa sul Sessantotto |
Torniamo ad essa, quindi. La
riunione aveva tutte le carte in regola per apparire, agli occhi di noi
studentelli, come una cellula rivoluzionaria, simile a quelle di cui si parlava
nei libri degli Editori Riuniti, tra i quali ve ne erano sulla storia del
biennio rosso, dell’occupazione delle fabbriche, dei primi consigli di
fabbrica. Oppure nei libri di Stampa alternativa dove si raccontavano le vicende
del Mitico Sessantotto, che appariva ai nostri occhi come un modello, seppure
fosse da tutti ritenuto un epos inimitabile… Ecco, nella mia fantasia eccitata
da qualche letturina di propaganda, quella riunione, sebbene vi si dovessero
decidere solo il programma della lista e i nomi dei candidati agli organi
collegiali della scuola, appariva proprio come un soviet, come un raduno del
maggio francese, come un incontro clandestino tra rivoluzionari. (1 – continua)
Opuscolo di Lotta continua dell'inizio degli anni Settanta |
Nessun commento:
Posta un commento