martedì 9 luglio 2013

Storie degli anni Settanta (1)

Frottole rosse
(La storia che segue, divisa in due puntate, è accaduta veramente.
Ho solo cambiato un paio di nomi)



Sarà stato ottobre, o forse novembre, del 1975. Avevo 16 anni e frequentavo la terza classe del Liceo scientifico della mia città.
Erano anni di forte ideologizzazione nelle scuole, anni in cui muovevano i primi passi i “parlamentini” disegnati dai Decreti Delegati: quegli Organi Collegiali che ancora esistono, sebbene oggi siano diventati rinsecchiti e burocratici organismi in cui spesso si celebra il nulla. Ma allora, nell’anno del loro primo apparire, sembravano un’invenzione rivoluzionaria, una novità che avrebbe portato, si diceva, la democrazia e la società dentro le vecchie strutture scolastiche. Le centrali della propaganda ideologica dell’epoca, ovvero i partiti, si mossero all’unisono per non lasciarsi sfuggire l’occasione di penetrare nei dibattiti e nelle riunioni che iniziarono a tenersi nelle aule di tutto il Paese.

Liceo Classico Parini (Milano), inizio anni Settanta
Grazie ai Decreti Delegati, infatti, si cominciò a officiare da quell’anno, nelle scuole di tutta Italia, un rito analogo a quello che si svolgeva nell’agone politico nazionale: lo scontro ideologico, condotto a colpi di antifascismo, di Costituzione, di “arco costituzionale” e così via. Lo scopo era vincere le elezioni per i pochi posti di rappresentante, dei genitori e degli studenti, negli Organi Collegiali. Tra questi il più ambito era il Consiglio d’Istituto, laddove, si diceva, si sarebbe decisa la “politica della scuola”. Perciò gruppi attivi di studenti e di genitori si riunivano, talvolta insieme, per mettere a punto le liste dei candidati e, soprattutto, per pensare e per scrivere i programmi “politici” con cui si presentavano i candidati. Nelle case dei genitori più impegnati fioccavano riunioni carbonare per comporre i programmi, scegliere i candidati, decidere il motto della lista. Le competizioni elettorali assomigliavano a quelle della politica nazionale, poiché veniva combattuta da liste contrapposte identificabili, in modo inequivocabile, grazie a precisi segnali ideologici: il riferimento ad una serie di parole-simbolo (libertà, democrazia, classe operaia, Costituzione, società, lavoro, antifascismo o anticomunismo…); oppure il richiamo a personaggi politici del passato più o meno recente (Gramsci, Nenni, De Gasperi, Togliatti, Papa Giovanni, Dossetti…); oppure ancora l’uso di motti espliciti (“immaginazione al potere”; “no alla scuola dei padroni”; “vietato vietare”…). Tutto questo armamentario di simboli, dicevo, serviva a dichiarare in quale luogo dello schieramento politico collocare la lista, se a destra, se al centro, se a sinistra. In genere tra le liste dei genitori vincevano quelle di centro, d’ispirazione parrocchiale-cattolica, e quelle di sinistra social-comuniste: i seggi erano spartiti tra questi due schieramenti, come accadeva, grosso modo, nel Parlamento nazionale. Tra le liste degli studenti, invece, vincevano (e a mani basse) quelle di sinistra: noi studenti eravamo tutti più o meno ideologizzati verso quella direzione. Forti, ma non abbastanza da riuscire a vincere, erano le liste ispirate al cattolicesimo moderato; del tutto minoritarie quelle di destra estrema, organizzate da gruppi di studenti che ruotavano attorno al Movimento sociale italiano. Queste ultime erano insignificanti dal punto di vista numerico, ma la loro esistenza era sufficiente a far credere, a noi studenti di sinistra, che fosse in atto un colpo di Stato neofascista.



Ritorniamo a quell’autunno del ’75. Ricordo benissimo, come fosse ieri, una riunione in casa mia tenutasi per la preparazione della lista di sinistra dei genitori. L’avevano convocata una signora molto combattiva (la chiameremo Maria), militante del Pci in un vicino paese della Vallesina, e mio padre, allora simpatizzante del Partito comunista, sebbene “critico” – come lui amava definirsi - nonché attivista sindacale. La signora Maria aveva anni di esperienza politica alle spalle, era stata anche amministratrice nel suo comune ed un suo parente era deputato in Parlamento. Tutta la sua famiglia, sebbene ricca, era nota per essere un clan “rosso” e per aver condotto epiche battaglie contro molti avversari politici in tante sedi: consigli regionali, provinciali e comunali, assemblee cittadine, riunioni di quartiere e persino di condominio. Averla dalla nostra parte era quasi una garanzia di successo. Gli altri genitori presenti erano più o meno prossimi all’area di sinistra: un signore che si proclamava “laico e repubblicano”; una professoressa (ma lì presente in qualità di madre) “seguace di Pannella”; un commerciante che si professava “ateo e progressista”; una signora, casalinga, che si presentò come “madre dalle vedute larghe e femminista”.
 
Fine anni Settanta: attivisti di Lotta continua
Alla riunione vi erano anche due studenti: una ragazzina che frequentava la prima classe del Liceo, occhialuta, bruttina, ma arrabbiatissima; ed io. La ragazza si era da poco avvicinata al gruppo denominato “Il Collettivo”, sorto da qualche mese dentro la scuola, che riuniva studenti di estrema sinistra: il gruppo aveva una sua piccola sede, leader noti nel nostro paesello, contatti con altri simili raggruppamenti nelle città vicine. In quegli anni formazioni come questa esistevano quasi in ogni angolo d’Italia, spesso erano costituite da poche decine di studenti. Questi, una volta diventati maggiorenni, di solito esprimevano il loro voto, in occasione delle elezioni politiche, per partiti rumorosi ma piccoli, così piccoli che i loro iscritti e simpatizzanti erano spregiativamente denominati, dalla sinistra ufficiale, “gruppettari”: il Partito di unità proletaria, Avanguardia operaia, Democrazia proletaria, Nuova sinistra unita e così via. Studenti come quelli del “Collettivo” erano, insomma, “gruppettari” che rappresentavano una spina nel fianco (sinistro) del Pci. Erano molto critici nei confronti dei leader comunisti, talvolta violentemente critici, poiché si ispiravano al marxismo rivoluzionario e al leninismo in modo esplicito, rifiutando la cosiddetta “svolta revisionista” operata dal Partito comunista italiano nel corso dei primi anni Settanta, sotto la guida di Berlinguer. Ricordo gli slogan contro il segretario del Pci che urlavamo alle manifestazioni studentesche organizzate da Lotta continua: “Berlinguer, sei come un ravanello, rosso fuori, bianco nel cervello!”. Gruppi come “Il Collettivo” erano considerati pericolosi anche per l’intesa che alcuni dei suoi membri coltivavano con quelle aree che le autorità ritenevano eversive. E che in seguito, purtroppo, tali si sarebbero rivelate.
 
Enrico Berlinguer (1922-1984): segretario
del Pci dal 1972
Anch’io mi ero fatalmente avvicinato al “Collettivo” e partecipavo alle sue riunioni, dove si parlava di politica, di rivoluzione, di società senza classi. Ho detto “fatalmente” perché, proprio in quell’anno, mi ero scoperto interessato alla politica e avevo cominciato a professarmi “marxista e basta”, senza altri aggettivi. Fatale, perciò, ovvero inevitabile, fu il mio incontro con quel gruppo che si professava rivoluzionario e quindi, ai miei occhi, marxista ortodosso. Politica, rivoluzione, marxismo… Naturalmente credevo di conoscere i significati di queste parole e, soprattutto, pensavo che in quel gruppo ne sapessero ancor di più. Perciò, curioso e affamato com’ero di informazioni e di protagonismo, presi a frequentarlo con l’ingenua fede del neofita, con la sprovveduta impazienza del principiante convinto di avere scoperto una verità, di aver visto una luce di cui gli adulti, conservatori “a prescindere”, non si erano mai accorti. E quella verità intendevo rivelare al mondo prima possibile, poiché il mondo, ne ero convinto, non vedeva l’ora di pendere dalle mie labbra.
Se quella verità si fosse affermata, pensavo, il mondo sarebbe stato più libero: chi rifiuterebbe di essere più libero, mi chiedevo? Tutti amano la libertà, tutti aspirano ad essa. Non mi sfiorava minimamente il dubbio che vi fosse qualche contraddizione tra il marxismo e la libertà, né che qualcuno fosse disposto ad uccidere per affermare la mia stessa verità. La nostra provincia pareva ancora lontana da certe manifestazioni di violenza, isola felice e protetta dal perbenismo, dalle mamme apprensive e dai papà progressisti. Neppure mi sfiorava il dubbio che per qualcuno potesse esistere qualcosa di più desiderabile della libertà; che per qualcuno fosse il potere, non la libertà, ad essere davvero seducente. E che per il potere si potesse deviare dalla verità, anzi che si potesse mentire. In quella riunione dell’ottobre 1975 l’avrei scoperto.
 
Il Manifesto di Marx-Engels in una
delle storiche edizioni degli Editori Riuniti
Pubblicazione di Stampa Alternativa
sul Sessantotto
Torniamo ad essa, quindi. La riunione aveva tutte le carte in regola per apparire, agli occhi di noi studentelli, come una cellula rivoluzionaria, simile a quelle di cui si parlava nei libri degli Editori Riuniti, tra i quali ve ne erano sulla storia del biennio rosso, dell’occupazione delle fabbriche, dei primi consigli di fabbrica. Oppure nei libri di Stampa alternativa dove si raccontavano le vicende del Mitico Sessantotto, che appariva ai nostri occhi come un modello, seppure fosse da tutti ritenuto un epos inimitabile… Ecco, nella mia fantasia eccitata da qualche letturina di propaganda, quella riunione, sebbene vi si dovessero decidere solo il programma della lista e i nomi dei candidati agli organi collegiali della scuola, appariva proprio come un soviet, come un raduno del maggio francese, come un incontro clandestino tra rivoluzionari. (1 – continua)

Opuscolo di Lotta continua dell'inizio
degli anni Settanta

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