Memoria, oblio e storia: prima
parte
“Gli storici assolvono il compito professionale di
ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare.” (Eric J.
Hobsbawm, Il secolo breve, tr. it.
Milano, Rizzoli, 1995, p. 128; a proposito della riscoperta, negli anni ‘80 e
‘90, del liberismo, sebbene questo abbia dimostrato, secondo Hobsbawm, la sua
inefficacia teorica e pratica durante la Grande crisi degli anni Trenta).
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Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm |
È davvero così? È questo il compito degli
storici? E, soprattutto, è giusto obbligare a ricordare quel che si desidera
dimenticare?
1. Il passato che non
passa: Germania e Francia tra storia e memoria
È sempre difficile conciliare
storia e memoria. Come ha scritto Enzo Traverso in Il passato: istruzioni
per l'uso. Storia, memoria, politica (Verona, Ombre corte, 2006), storia e
memoria si oppongono come l'oggettivo e il soggettivo, l'assoluto e il
relativo. La memoria dei fatti accaduti in un'epoca, finché ne sono vivi i
testimoni diretti, enfatizza alcuni aspetti e ne tace altri, perché i testimoni
sono coinvolti emotivamente nel ricordo e non riescono ad avere di quei fatti
una visone obiettiva. Uno storico, invece, non dovrebbe agire così, ma spesso
anche lui è influenzato dall'atmosfera culturale in cui opera, così capita che
ricostruzione storica e memoria finiscano per coincidere, generando una
versione dominante dei fatti che si sostituisce del tutto al rigore critico e
al dovere dell'obiettività.
Vi sono anche ragioni psicologiche
che spiegano perché accade questo. Un trauma forte capitato in una comunità
impone, perché la vita ricominci a scorrere in modo normale, la rimozione di
quegli eventi, rimozione che spesso assume la forma di una condanna morale
incondizionata che la storiografia fa propria, senza indagare troppo sulle
reali responsabilità, cosa che potrebbe coinvolgere gruppi di persone
insospettabili: in tal modo la storiografia aiuta la comunità a riprendersi e a vivere normalmente; ma abdica
al proprio dovere di indagine critica.
È quel che è successo in Germania
con lo sterminio degli ebrei e più in generale con il nazismo, vicende quasi
rimosse, dopo la fine della guerra, dall'opinione pubblica tedesca e di
riflesso non ben affrontate dalla storiografia tedesca dell'immediato
dopoguerra. Anche in Francia il collaborazionismo di Vichy fu affrontato da una
parte dell'opinione pubblica con superficialità, condannando la questione come
un episodio grave ma che nulla aveva a che vedere con la gloriosa storia della
Francia repubblicana. Tali visioni dominanti durarono fino a che la rimozione
cominciò ad essere percepita come un silenzio complice. Ecco allora che, a
partire da quel momento, comincia la revisione della memoria ufficiale e
nascono nuovi modi di intendere il passato rimosso.
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Adolf Eichmann durante il processo svoltosi nel 1961 a Gerusalemme. Eichmann venne impiccato il 31 maggio 1962 |
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Hannah Arendt (1906-1975) |
In Germania, a partire dagli anni
Sessanta, sulla scorta degli studi sociologici statunitensi, e sotto
l'influenza del processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961, comincia un
approfondimento storico del nazismo che conduce ad individuare nella stessa
storia tedesca i presupposti della dittatura. A questi studi si aggiunsero
quelli di ispirazione marxista, così si formò una nuova memoria ufficiale che
si concentrava su temi nuovi: responsabilità del capitalismo tedesco e del
capitalismo in generale; responsabilità delle scelte politiche precedenti, sino
al tema del coinvolgimento di una parte notevole della popolazione tedesca
nella follia criminale del nazismo. Quest'ultimo tema deve molto al concetto di
“totalitarismo” introdotto da Hannah Arendt fin dal 1951 (Le origini del
totalitarismo) e poco più tardi da alcuni scienziati sociali statunitensi
(Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinskj, Totalitarian Dictatorship and
Autocracy,1965): lo stato totalitario, infatti, gode di un certo consenso
popolare stimolato e organizzato da apposite strutture di propaganda e di
mobilitazione di massa. Sulla base del concetto di totalitarismo, ad esempio,
lo storico tedesco George Mosse pubblicò negli anni Ottanta una serie di studi
in cui analizzava la funzione avuta, nella mobilitazione del consenso in
Germania, dalle associazioni sportive, ricreative e giovanili. Insomma, se la
Shoah era stata omessa nella memoria ufficiale tedesca prima degli anni
Sessanta, poi divenne una memoria forte e ufficiale, protetta
istituzionalmente, indiscutibile: il nazismo veniva così giudicato come il
“male assoluto”. Non solo, il tema del consenso alla dittatura ha generato
quello della “colpa collettiva” del popolo tedesco, tesi sostenuta da
autorevoli studi storici di grande successo: ad es. lo storico statunitense
Daniel Goldhagen pubblicò nel 1996 lo studio I volenterosi carnefici di
Hitler nel quale, sulla base di una mole notevole di documenti, provò il
coinvolgimento diretto, persino emotivo, dei soldati e della popolazione tedeschi
nelle operazioni di costruzione dei lager, di detenzione dei reclusi e di
sterminio degli ebrei.
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Lo storico tedesco Ernst Nolte |
L'eccesso di memoria che questa svolta produsse in
Germania generò, a sua volta, una controreazione. Tra 1986 e 1987, infatti, il
grande pubblico fu coinvolto nella cosiddetta Historikerstrait, o “lite
degli storici”. Essa esplose quando lo storico tedesco Ernst Nolte pubblicò un
saggio intitolato Nazionalismo e bolscevismo. La guerra civile europea
1917-1945 (1986) nel quale sosteneva che la causa (il “prius logico
e fattuale”) del nazismo fosse nel bolscevismo, poiché fu questo ad inventare
lo sterminio come arma politica, mentre il nazismo lo copiò per reagire al
bolscevismo, per difendere da esso la nazione e l'identità razziale tedesche.
Perciò, per Nolte era ingiusto demonizzare il popolo tedesco ed anche parlare
del nazismo come “male assoluto”, poiché i crimini nazisti non erano unici e
neppure i più gravi dei tanti commessi in nome dell'ideologia. Nolte fu
accusato di “revisionismo” (cioè di voler rivedere una memoria ufficiale, ormai
accettata dall'opinione pubblica e dagli studi storici) se non addirittura di
“negazionsimo”, accusa assai più grave, perché indica coloro che negano o
ridimensionano lo sterminio degli ebrei. In realtà Nolte non ha mai negato i
lager né le cifre dell'Olocausto (semmai l'hanno fatto altri storici, come il
francese Faurisson, dichiaratamente negazionista); ma la reazione dei vertici
della cultura accademica tedesca contro Nolte dimostra come fosse scoperto il
nervo sulla questione dell'interpretazione del nazismo. All'intera vicenda ha
dedicato un libro lo storico italiano Gian Enrico Rusconi, Germania: un
passato che non passa (Torino, Einaudi,
1987).
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Maurice Papon (1910-2007) nel 1940, quando era un funzionario della repubblica di Vichy |
Vicende analoghe accaddero in
Francia in occasione del processo contro Maurice Papon. Questi era stato
prefetto di polizia di Parigi nel 1958, deputato all'Assemblea nazionale francese fino al 1976 e ministro nei governi di Raymond Barre tra 1978 e 1981. Ebbene, nel 1983 si scoprì essere
stato, durante la repubblica di Vichy, prefetto di Bordeaux e, come tale,
responsabile dell'invio di centinaia di ebrei francesi ai campi di
concentramento nazisti. Nel 1998 fu condannato a 10 anni di reclusione per
crimini contro l'umanità, poi tentò di rifugiarsi in Svizzera, venne acciuffato e arrestato. Morì in clinica, dove era stato ricoverato per motivi di salute, nel 2007. Il processo sollevò molte
polemiche, la Francia si divise tra colpevolisti e innocentisti; Papon divenne
il simbolo di una Francia compromessa molto in profondità con il collaborazionismo
e per molti francesi, quindi, un capro espiatorio. Sulla vicenda lo storico
francese Henry Rousso ha scritto due libri: La sindrome di Vichy (1987)
e Vichy, un passato che non passa (1994), alludendo fin dal titolo dei
due volumi al fatto che la memoria pubblica e ufficiale di quegli eventi non
era affatto definitiva e indiscutibile, poiché vi erano ancora molti lati
oscuri sui quali era calato un silenzio complice. (continua)
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